Perché davanti all’orrore c’è chi scende in piazza non per consolare le vittime ma per sostenere la causa dei carnefici? Perché chi avversa le vittime si batte per carnefici che non disprezzano soltanto quelli che trucidano e sgozzano ma anche quelli che li difendono? “Ci eravamo detti: ‘Mai più'”, ha scritto nei giorni scorsi J.K. Rowling su X riportando la lettera di una mamma in cui raccontava come la scuola della figlia abbia raccomandato agli studenti ebrei di nascondere la kippah sotto un cappellino da baseball. “Questo – commenta la madrina di Harry Potter – dovrebbe scatenare un’indignazione di massa”. E invece no. L’indignazione di massa, il giusto sussulto che il mondo intero o, quanto meno, l’Occidente dovrebbero avere, non c’è stato. O quantomeno non è stato unanime. Nemmeno davanti alle fotografie e ai video dei neonati decapitati in culla o di intere famiglie fucilate mentre dormivano nei loro letti. Troppi i distinguo e le giustificazioni. E ancor più disgustose della resa, come nel liceo di Londra citato dalla Rowling, sono le schiere di progressisti che si battono, a chilometri di distanza dagli attentati, per tagliagole e terroristi.
C’è qualcosa di insolitamente masochistico, addirittura autolesionista, nell’atteggiamento dei filo palestinesi di casa nostra che in queste ore si schierano contro gli israeliani che ancora piangono i morti. Li accusano di preparare una “risposta sproporzionata” contro le belve di Hamas, una risposta che finirà per coinvolgere innocenti e fare altre vittime. Ma esiste davvero una “sproporzione” contro chi fa carne da macello dei tuoi bambini, stupra le tue donne, brucia vivi i tuoi nonni? Potrà mai esistere una formula aritmetica in grado di definire il limite entro cui la vittima può reagire davanti a tanto orrore? Ovviamente la risposta è no. Eppure c’è chi pensa di poter far valere il diritto internazionale laddove regna il male.
L’attacco di Hamas va ben oltre l’orrore della guerra, sconfina nella barbarie. Ricorda la sanguinaria mano dei fondamentalisti islamici che più volte hanno attaccato l’Occidente. Anche in quelle occasioni non erano mancati i distinguo. Chi chiedeva una risposta netta veniva accusato di colpevolizzare tutti i musulmani. E così l’odio ha avuto terreno fertile per continuare a proliferare. Non è stato estirpato dopo l’ondata di attacchi firmati da al Qaeda. E nemmeno dopo le atroci aggressioni dei terroristi dell’Isis. L’Europa ha continuato a professare accoglienza e ad aprire le porte a chiunque sbarcasse sulle nostre coste o valicasse, anche illegalmente, i nostri confini. Nemmeno la tanto sbandierata integrazione ha dato i suoi frutti. Le distanze con i figli di immigrati di seconda e terza generazione restano. Le “no go zone“, i quartieri a maggioranza islamica dove nemmeno le forze dell’ordine hanno accesso, sono aumentate. E le banlieue nelle città del Nord Europa sono, ancora oggi, una polveriera pronta a esplodere e un covo di radicalismo inestirpabile.
In queste ore il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha detto chiaramente che ora è “fondamentale difendere la sicurezza del Paese” sia perché si profila “una riesplosione dell’integralismo” islamico sia perché le continue ondate migratorie potrebbero portare soggetti pericolosi. Da qui la necessità di aumentare i controlli: “Non possiamo permetterci adesso di far entrare persone che verrebbero a combatterci”. In barba ai buonisti, agli ultrà dell’accoglienza e alle toghe pro migranti. Il rischio è, infatti, che l’Europa si trovi a dover combattere una nuova jihad. Le ultime le ha sempre subite. Forse perché troppo preoccupata a non eccedere in una “risposta sproporzionata”.
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