di Gianfranco Tomei
Il barone Julius Evola è stato un intellettuale assolutamente non integrato, non nella cultura italiana ed europea del secondo dopoguerra, ma neanche durante il ventennio fascista fu molto amato dalle elites al potere. Il suo concetto di Tradizione, che lo colloca comunque ovviamente in una area di destra, era eterodosso rispetto alla ortodossia conservatrice comunemente riconosciuta: pagano più che cattolico, si rifaceva a dottrine spesso più orientali che europee, citava opere per l’epoca eccentriche come la Bagavaghita, l’I’ching ecc. Era diffidato dalla cultura marxista, da quella cattolica, ma anche la sua stessa area prese spesso le distanze da lui. Tacciato, in anni di contestazione, di essere un “Cattivo Maestro”al pari, nell’altro schieramento, di Toni Negri e altri, ebbe i suoi strenui apologeti e difensori, come Gianfranco De Turris, che rilevavano la sua avversione per il movimentismo armato, nonostante fosse un intellettuale che non teorizzava il rifugio nella “turris eburnea” ma invitava ad una presenza attiva, per quanto non ossessivamente attiva, nella vita politica pubblica.
Chi scrive non è certo un frequentatore assiduo delle opere di Evola, con alcune lacune piuttosto rilevanti. Tuttavia l’intenzione è di fare una rapida analisi dei rapporti di Evola con alcune correnti della cultura occidentale moderna, in particolare con l’esistenzialismo, facendo riferimento anche ad alcune riflessioni che il barone dedica alla musica moderna, in particolare al jazz. Ci si attiene a quanto riportato da Evola in uno dei suoi saggi più famosi (assieme a “Rivolta contro il mondo moderno) e cioè “Cavalcare la tigre”, in particolare nelle sezioni Il vicolo cieco dell’Esistenzialismo e Il Dominio dell’Arte – Dalla musica ‘fisica’ al regime degli stupefacenti.
Già nelle prime parti del volume Evola stigmatizza uno dei capisaldi della cultura, anzi della contro-cultura americana, quel movimento beatnik che è stato così fecondamente importato in Europa e che ha fatto da apripista alle contestazioni sessantottine e che arriva fino ad oggi in varie forme e maniere, e influenza profondamente anche noi uomini contemporanei.
Per Evola tutta la contro-cultura della contestazione è il frutto marcio delle malattie che pervadono l’occidente avanzato, e cioè il materialismo e il nichilismo. Dopo la dissoluzione dell’Impero la realtà si è fratturata in miriadi di piccoli poteri in lotta fra loro, e il risultato è aver fatto convergere l’esistenza nei suoi aspetti più sordidi e postribolari.
Scrive Evola: “Ieri si trattava di scrittori, di pittori e di poeti “maledetti” viventi allo sbaraglio, spesso alcolizzati, mescolanti la genialità col clima della dissoluzione esistenziale e con la rivolta irrazionale contro i valori stabiliti. Tipico il caso di un Rimbaud…Già dopo la prima guerra mondiale processi del genere hanno cominciato ad estendersi preannunciando forme liminali di nichilismo.”
“Sono stati per un lato… i young angry men, con la loro ira e aggressività in un mondo in cui si sentono degli estranei, di cui non vedono il senso, dove non scorgono nessun valore per il quale meriti combattere o entusiasmarsi… Più significativa fu la controparte americana, costituita dagli hipster e dalla beat generation… Nelle forme più radicali questo mito… è quello che ha dietro di se’ il vuoto più pauroso e che presenta il valore dell’oppiaceo più deleterio finora somministrato ad una umanità sradicata” (Cavalcare la tigre, J.Evola, pp.35-36.)
Sappiamo che Evola non parlava da posizioni moralistiche o reazionarie. In gioventù produsse delle opere pittoriche vicine al movimento dadaista, ed è sempre stata da lui spregiata la condotta beghina di certe correnti del cattolicesimo più moralizzante e rinunciatario. Fra le sue opere più celebri c’è la Metafisica del sesso, dove propone una sessualità svincolata dai sensi di colpa, profondamente pagana, vitalistica ed esplosiva. Nonostante questo si opponeva ad una caduta dei valori umanistici nel vortice di un decadentismo senza uscita come quello che la cultura beatnik prospettava per i suoi adepti.
Ancora più indicativo è il capitolo dedicato all’esistenzialismo, in cui vengono citati gli esponenti più di rilievo del movimento come Jaspers e Sartre, e anche gli ispiratori ideali, come Heidegger. E’ noto come il motto più importante dell’esistenzialismo sia quello sartriano secondo il quale “l’esistenza precede l’essenza” (L’esistenzialismo è un umanismo, JP Sartre). Con questo motto Sartre vuole indicare come non ci siano essenze date per assodate in maniera definitiva, non ci sia un destino a cui si sia consegnati in modo inevitabile e inappellabile, l’uomo è un reticolo di possibilità l’una intricata con l’altra, in particolare l’uomo è condannato alla libertà, alla costruzione di sé stesso giorno per giorno. E’, per dirla con Heidegger, “gettato nel mondo”.
Quindi l’esistenza di ogni singolo uomo, nel suo farsi continuo, secondo il pensiero esistenzialista precede una essenza che al contrario sia stabile e definita una volta per tutte, dalla nascita. E da qui proviene anche la condizione dell’uomo esistenzialista, che è un essere votato all’angoscia della scelta continua, su cui pesano i rimorsi per le scelte non compiute e abbandonate per strada. L’uomo, per Sartre e per gli esistenzialisti, è “condannato” alla libertà di essere giorno per giorno un uomo nuovo, un essere rinnovato, e le “mosche” dell’angoscia lo perseguitano in eterno (Le mosche, JP Sartre).
Evola non si trova sulla stessa traiettoria né dell’esistenzialismo sartriano, né di quello più “morbido”, umanistico e cattolico di Jaspers. Un uomo della Tradizione come Evola non può ritrovarsi in una filosofia che sfocia nell’arbitrio totale, nella libertà vista come un dono ma anche una condanna, nella indeterminatezza dei fini e, aggiungendo a ciò la prospettiva di Heidegger, dell’”essere per la morte”, dove hanno fine tutti i tormenti dell’esistenza. Evola, più in linea con il suo ispiratore Nietzsche, non tradisce la dottrina dell’”uomo differenziato”, che vive nel culto della tradizione, senza però che questa tradizione sia una prigione da cui non si possa respirare l’aria della modernità. In linea con il principio nicciano del “diventa ciò che sei”, il pensiero di Evola dà un taglio netto alla pretesa dell’arbitrio esistenzialista, e pone l’uomo nel solco di una ontologia perennemente in divenire.
Quello di Nietsche, per Evola, è un esempio di Nichilismo attivo, che non scade nella disperazione e nell’ottundimento, come pretende di fare l’arte che ha perso la grandezza borghese per sprofondare nella descrizione compiaciuta del vizio, del marciume e del degrado. A ciò non fa eccezione neanche l’arte realista socialista, che è lontana dal grande naturalismo classico, ma è pura espressione sociologica e superficiale di una realtà spogliata di ogni panneggio trascendente e puramente bieca e animalesca.
Per quanto riguarda il jazz, prima Evola se la prende con la musica dodecafonica, con Strawinsky, Schonberg e i suoi epigoni, in aperta opposizione con quanto sostenuto in anni più o meno coevi da Theodore Adorno, fino ad arrivare alla condanna della dissoluzione del codice musicale che avviene con John Cage. Poi scrive: “Il jazz corrisponde innegabilmente ad uno degli aspetti di quell’affioramento dell’elementare nel mondo moderno…vi è stato chi ha fatto rientrare il jazz tra le forme di compensazione a cui l’uomo di oggi è ricorso di fronte alla sua esistenza praticistica, arida e meccanizzata; il jazz gli avrebbe fornito contenuti grezzi di un ritmo e di una vitalità elementare…I motivi di ispirazione egli è andato a cercarli nel patrimonio delle razze più basse ed esotiche, dei negri e dei meticci della zona tropicale e subtropicale…Si può ritenere che sia stato il primitivismo a cui è giunto regressivamente l’uomo ultimo, in specie l’uomo nord-americano, a fargli scegliere…una musica avente una impronta parimenti primitiva, come quella negra, ma che in origine si associava a forme oscure di estasi.”
E ancora: “La potenzialità estatica sussiste nel jazz. Nei riti africani con questa tecnica veniva propiziato l’innestarsi nei danzatori di determinate entità, gli Orisha degli Yoruba e i Loa dei Vudu di Haiti…. Qui prevale la reiterazione ossessiva di un ritmo (come nell’uso del tam-tam africano) che già negli esecutori porta a contorsioni parossistiche del corpo e ad urla inarticolate, trovando eco nella massa degli ascoltatori che, associandosi, strillano istericamente e si dimenano anch’esso, creando un clima collettivo simile a quello degli invasamenti dei riti selvaggi e di certe sette dervisce, della macumba e dei revivals negri.” (Cavalcare la tigre, J.Evola, pp.145-146.)
A prescindere dall’impressione che ci fanno queste parole, dal fatto che le condividiamo o meno, non possiamo non notare quanto ancora oggi questi fenomeni artistici, positivi o meno a seconda di come li riteniamo, siano presenti tuttora intorno a noi, con il proliferare della musica di origine latino-americana nelle radio, del successo dei corsi di salsa, merengue, bachata e simili. E non possiamo negare, nonostante ci si possa stracciare le vesti e gridare ad un presunto razzismo squadernato senza vergogna, quanto queste parole suonino vicine al nostro vissuto giornaliero e odierno.
Per tornare all’esistenzialismo e alla posizione di Evola in merito, non dobbiamo dimenticare che la dottrina evoliana ha le sue radici nella mistica orientale che, coinvolgendo anche gli scritti e il pensiero di Reneé Guenon, tramanda il concetto di Kalyuga, ovvero di età del decadimento, nel rapportarsi all’evo moderno. Il Kalyuga è il momento in cui l’umanità precipita giù dalla grande mitologia del passato e sprofonda in un’epoca di assoluto degrado morale e sociale. L’homo oeconomicus è per questi scrittori il nemico per eccellenza: l’uomo borghese, interprete di una classe sociale che si è fatta largo nella Storia, soppiantando la classe aristocratica e guerriera e portando tutta la vita associativa nella dimensione dell’Utilitarismo mercantile. Non c’è quindi più spazio per una visione della Trascendenza e per il culto della Tradizione.
L’esistenzialismo, il beatnik, l’imporsi di una musica tribale e primitiva sono tutti segni di un disagio che l’uomo moderno tenta di arginare stordendosi con arte degradata e consolandosi con filosofie libertine e libertarie. Ma il vero problema sta nel meccanicismo e nel nichilismo che la cultura moderna, per Evola e per gli scrittori e saggisti amanti della Tradizione, instilla come veleno sotto pelle ad una umanità non più salda negli ideali della razza e del sangue.
Allo stesso modo la dottrina di Evola non è una teosofia. Al centro del suo pensiero resta sempre l’Uomo, con le sue angosce e le sue contraddizioni, ma pur sempre un Essere al centro del creato, saldo nella sua umanità, non piegato a logiche meramente economiche e mercantili, ma impregnato di nichilismo reattivo e operoso. Un uomo che sembra sempre più un guerriero che, come scrive Evola in altri suoi saggi, si aggira fra le rovine di una civiltà che si sta spegnendo.
Per quanto possiamo rifiutare queste teorizzazioni evoliane, per quanto ci sembrino trasudare un razzismo inaccettabile ai nostri occhi, non possiamo negare che la sua descrizione dell’età moderna suscita in noi un fascino inconfessabile. In tempi di LGBTQ+ e di gender fluid, queste idee evoliane possono sembrare assurde, prive di ragione, da relegare ad un passato archeologico e presente solo nelle deviazioni del pensiero arcaico. Eppure anche con il nostro sguardo, con la nostra sensibilità e la nostra percezione odierne, scorgiamo in essa i tratti di una dottrina che fonda le sue radici nell’ontologia di una Tradizione da non dimenticare, da non buttarsi alle spalle come nulla fosse. Pur con le dovute distanza e i necessari riaggiustamenti dovuti al tempo trascorso e ad un nuovo reinquadramento culturale e storico, questa dottrinacontinua a suscitare un interesse e, malgrado tutto, un fascino che travalica gli schieramenti di campo e si configura come un lascito, significativo anche per la mole, che non si può ignorare e con cui si debba necessariamente e prima o poi fare i conti in maniera non ipocrita e non menzognera.
Gianfranco Tomei (Roma, 1974) insegna Psicologia Sociale e Comunicazione all’Università Sapienza di Roma. E’ docente esperto di Criminologia e Devianza. Regista di cortometraggi e documentari che hanno avuto riconoscimenti in diverse manifestazioni culturali.
Bibliografia
J.Evola, Cavalcare la tigre, Ed. Mediterranee, Roma, 1961.
J.Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Ed. Mediterranee, Roma, 1969.
J.Evola, Gli uomini, le rovine, Ed. Mediterranee, Roma, 2001.
J.Evola, Metafisica del sesso, Ed. Mediterranee, Roma, 1969.
J.P.Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano, 1946.
J.P.Sartre, Le mosche, Bompiani, Milano, 1995.
J.P.Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1980.
R.Rosati (a cura di), Julius Evola, Fascismo Giappone Zen. Scritti sull’Oriente 1927-1975, Pagine, Roma, 2016.
R.Rosati, Considerazioni sull’antiamericanismo di Evola, Studi Evoliani, 2014, 127-33.
M.Heidegger,Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005.
- Adorno, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino, 2002.
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