Tutti i riformismi de Il Mulino

Attualità RomaPost

Ci sono rimasticamenti senza fine, come quando la polpa se ne è andata da tempo e sotto i denti resta ultima la dura callosità, senza sugo e gusto, che s’ostina a non andare né su né giù, per quanto la si voglia intendere e chiamare ancora carne. Tale appare la biliosa discussione scatenatasi nell’ormai circoscritto mondo delle antiche casematte culturali di sinistra alla notizia del cambio di direzione della prestigiosa rivista progressista, Il Mulino. La rivista della bolognese Strada Maggiore, mensile di attualità e cultura, fondata nel ’51 da Cavazza, con riferimento al romanzo di Bo, poi dal ‘64 indipendente dalla precedente proprietà, la Poligrafici il Resto del Carlino, promosse l’incontro culturale tra la minoranza riformista della sinistra, i liberali e di cattolici di sinistra con collaboratori come Giugni, Kelsen, Mannheim, Raimondi, Acquaviva, Compagna, Del Noce, Sartori, Galli e Spinelli. Dal ’54 per iniziativa della rivista nacque anche la casa editrice de il Mulino, 5mila titoli in catalogo, sempre con l’obiettivo di concordare i principi democratici e liberali con quella che un tempo si chiamava giustizia sociale, oggi tradotta in uno sbiadito sviluppo inclusivo.

Nei’90, il Mulino si trovò in difficoltà esistenziali. Non poteva accettare il campo liberale allargato, occupato da Berlusconi, mentre l’istinto lo faceva stare alla larga dal riformismo, a suo tempo fatto suo da Craxi, e per questo rovinato per sempre. Sempre con gli occhi tirati all’indietro, rivolti alle idee delle formazioni politiche dissolte, il Mulino prodiamente rinnovò l’antico dialogo con identità cristiane, che potessero dirsi democratiche, con i due o tre, di numero, conservatori e liberali, considerati presentabili, ma soprattutto con la massa di coloro che per decenni avevano odiato il riformismo, e che ora, pur dicendosi di sinistra, non ne avevano chiari né idee, né obiettivi. Al Mulino, anche fosse un cappio al collo, all’ancora della tradizione non si rinuncia; il primo direttore, Evangelisti, era durato per più di 40 anni, dal 1965 alla scomparsa. La rivista finì per parare nel porto sicuro, blandito dall’unico Stato guida rimasto, della terza via neoliberista progressista degli anni ‘90, apice e sintesi di tutti i conflitti filosofico politici precedenti. Si godette il dialogo pienamente raggiunto tra sinistri, liberali e cattolici, ormai declinato con le stesse parole, gli stessi argomenti, le stesse conclusioni. Un dialogo bulgaro nel quale si cercava disperatamente ed a fatica motivo di litigio; il dialogo del compromesso storico socialdemocratico che a sua onta non poteva e non voleva includere i socialdemocratici per le note ragioni. Senza vergogna, il Mulino, come tutta l’egemonia deli ex, accettò di dare a questa piattaforma monocorde, osannante il migliore dei mondi possibili, l’impossibile appellativo di riformismo, snaturandone il senso originale.

I 70 membri dell’associazione il Mulino che con vanto progressista viene ricordata come proprietaria della testata, si riuniscono ogni tre anni per nominare il direttore. Cavalli venne eletto per il ‘94-2002, Berselli per il 2003-8, il faentino politologo comparato Ignazi per il 2009-11, l’economista Salvati, primo teorizzatore del Pd, per il 2012-17 e nel 2018, per due mandati e 6 anni, il 70nne filosofo del diritto milanese Ricciardi.

Piero Ignazi

A settembre, all’alto minareto dell’egemonia culturale, un po’ oscillante oggi verso il deserto, da cui si sono diffusi i salmi dei muezzin Prodi, Amato, Panebianco, Pasquino e Salvati; alla gran torre, compendio dell’omnia accademica ed universitaria, utile agli studenti i cui professori abbiano i piedi ben calcati nei ’70, si scelse per il 2024-2026 tra il ritorno del pensionato Ignazi (a suo merito la riproposizione di un illuminismo versione 2000 ed il rinnovamento del sito web) e la novità dello storico bolzanino Pombeni che prevalse per 32 voti a 30. Assieme a lui, il nuovo comitato di direzione di Clementi e Giunta e delle De Paola e Ramajoli. Con il travaglio di rabbia di una tempesta in un bicchiere d’acqua, un interno come il sociologo Zamponi, sinistro radicale, ha raccontato le sollecitazioni che quella vittoria provocò. Intanto, a gamba tesa, senza motivo, era entrato nella tenzone, in modo poco dottorale, il mondo mediatico, dal Resto del Carlino(svolta riformista) al Foglio(necessità di un vero riformismo), dal Corriere di Bologna (si cerca un profilo più riformista) all’amerikano Riotta (riformismo del professor Pombeni vince su movimentismo del professor Ignazi), tutti ad esultare quasi che Ricciardi o Ignazi fossero tanti Chavez. Invece tutti i professori avrebbero potuto sottoscrivere tranquillamente le parole di Pombeni, riforme sì, ma con pazienza e gradualità.

Affatto rivoluzionari, posati e gran dottori, i Ricciardi, e di conseguenza gli Ignazi, in realtà avevano litigato sull’ex Twitter con i potenti della Regione come il governatore Bonaccini, alienandosi la relativa componente. Paradossalmente ora che al comando del partitone di sinistra c’era la Schlein, i suoi fautori al Mulino, più radicali (ma con juicio) lasciavano il campo, o meglio le pale. Non lo si poteva dire, però, uno scontro tra critici, più o meno moderati del posturbocapitalismo sociale.

Mario Ricciardi

I Ricciardi e gli Ignazi non somigliano al radicale Bernie nel confronto americano del 2016con la centrista Hillary, come questa, d’altronde, non può essere detta riformista. I pochi espressamente di sinistra estrema, anche dentro la rivista, si sono ridotti a cercare, come già in passato, leader all’estero qualunque, dal Sánchez spagnolo al Lula brasiliano, dal Boric cileno a, incredibilmente, anche al Biden americano, pur di non arrendersi all’immobilismo liberista sociale nostrano dove sinistra e casematte culturali italiane si sono arenate senza abbandonare la terminologia rivoluzionaria del passato, ormai senza senso. L’accademia, come in un serial del sovrannaturale, coltiva lo spettro riformista della minoranza interna, fin dentro il Nazareno, cercando e non trovando i massimalisti al potere.

Bisogna ammettere che non c’era bisogno di spiegare la morte del massimalismo; ci aveva già pensato il Pci. Il Mulino non ha però nemmeno sceverato, nei suoi studi, le ragioni per cui sia morta l’idea, a lungo interiorizzata da molti, della direzione univoca progressista della storia verso la società senza classi. Non ha affrontato la natura, completamente destra, del riformismo del nuovo secolo, tutto in nome dell’efficienza, governabilità’, legalismo e produttività; definibile se non berlusconiano, europeo(le riforme che ci chiede l’Europa), erede del programma della Spd di Bad Godesberg del ’59 che il Pci definiva, giustamente dal suo punto di vista, reazionario. Al Mulino non hanno inteso spiegare tutta una serie di funerali, quello della rivoluzione, delle riforme rivoluzionarie, degli ortodossi marxisti, dei revisionisti, dei massimalisti, dei comunisti rivoluzionari, dei socialdemocratici riformisti, degli integrati e degli antagonisti. Si sono lasciati ingoiare, come il rispettivo referente politico, dal libero mercato, senza amarlo, nell’illusione di migliorarlo. Qualunque ragionamento critico si è fermato davanti al muro invalicabile della condanna criminale di ogni movimentismo e violenza, sotto il nome di terrorismo o golpe, come oggi chiameremmo il modello della Rivoluzione d’ottobre; oppure davanti alla sussiegosa scomunica dell’elettorato, contrario all’ossimoro di liberismo e progressismo, sempre e comunque marchiato come pericoloso populista e sovranista, anch’esso ad un passo dalla delinquenza.

Nel 2008 si era aperto uno spiraglio. Il nuovo ’29 frantumò la terza via liberista progressista. La torta finanziaria non si ingrandiva più incessantemente per tutti. Il mondo non bianco rigettava l’esportazione della democrazia. La realizzazione della società senza classi, inversamente da come progettata, tutta borghese e non proletaria, non redistribuiva, non aveva patto e ascensore sociali, anzi presentava livelli mai raggiunti di diseguaglianza tra il grande ceto medio ed i vertici, tra le competenze e le possibilità degli Stati e le colossali entità multinazionali, tra le reciproche incommensurabili diverse velocità di decisione ed azione. Qualche voce, come un tempo, criticò il capitalismo. La sua fine non era però proprio più prevista, anzi. Dal suo ventre, il posturbocapitalismo sociale partorì la più grande autocritica, ambientalista, con la quale nuovi settori e pezzi economici, digitali e finanziari ne cannibalizzavano altri. Applicato ai nuovi paradigmi ed idoli, il circo culturale subito ripartì, applicando gesta e nomi, radicale e moderato, rivoluzionario e conservatore, riformista e negazionista alla nuova ideologia. E via con mille girotondi attorno alle cinquanta sfumature di riformismo alla ricerca di avversari storici (forse l’esagerazione del millenarismo messianico del clima) ma sempre saldamente alleati dell’ortodossia liberista.

Ci sarebbe voluto coraggio al Mulino a prendere per controverso quello spiraglio. Dalle reazioni in occasione dell’elezione del nuovo direttore, scatenatasi per leggeri movimenti di ermellini e deretani sugli augusti scranni, probabilmente ci sarebbero stati per reazione prepensionamenti a raffica. Non è previsto l’orizzonte non della rivoluzione, ma nemmeno di un qualche cambiamento, di un dirottamento dai binari dell’intelligenza artificiale applicata alla politica, che annichilisce i poteri degli Stati, dei parlamenti, dei popoli, del pensiero sotto la massa infinita finanziaria e tecnologica. Specializzarsi invece in lingue morte, anzi false, quello non solo è permesso, ma auspicato.

Gianfranco Pasquino

Cos’è, oggi, un massimalista? Può essere solo un mujahidin che rivuole, anche con il sangue, anacronisticamente l’Impero ottomano. A sinistra invece? Non è in grado per disonestà intellettuale di elaborare la propria fine. Fuori la rivoluzione, fuori il massimalismo, fuori il riformismo, squalificato se non socialista. E il socialismo venne massacrato anzitempo. Il riformismo cui si appellano le casematte è immobilismo, tendente al cambiamento graduale su contenuti attesi e suggeriti dal sistema egemone. L’arguto Pasquino, una delle storiche colonne de Il Mulino, nell’ammettere tensioni e divisioni interne, considera il ricambio fisiologico e salutare ma confida in un prossimo direttore cinquantenne e non 70enne. Poi però squalifica i nuovi soci cooptati che hanno tradito lo spirito originario dell’associazione. Forse ignorano la storia del riformismo.

Il tennista Panatta, raggiunto nei suoi record storici dei dieci titoli e del quarto piazzamento individuale mondiale dal giovane Sinner, ha esclamato Spero che il prossimo torneo lo vinca già domani così mi supera e non mi chiamate più.

Grande lezione per chi, fatto il proprio tempo, ad andarsene non ci pensa proprio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Moderazione dei commenti attiva. Il tuo commento non apparirà immediatamente.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.