Il francese Haski su France Inter si pone tre domande su Israele e l’attuale guerra. Si potrebbero chiamare le tre domande democratiche che hanno già al proprio interno le risposte. In quale momento Israele sarà costretto a cambiare strategia? Non si estenderà il conflitto all’Iran? Davvero Netanyahu resterà al suo posto fino alla fine della guerra? Le risposte democratiche sono nell’ordine, subito, presto, no; e sono un completo wishful thinking. L’elenco delle voci autorevoli, dagli Usa a Francia, Regno Unito, Germania agli altri europei fino all’Onu, tese a dissuadere Gerusalemme dal proseguire la guerra a Gaza, è lungo e si allungherà ulteriormente, ma inutilmente, malgrado vittime sfortunate, incredibili e altolocate.
I 73 giorni di guerra della Striscia di Gaza possono sembrare tantissimi; eppure, sono destinati ad essere breve introduzione. Ammettiamo che il feroce massacro del 7 ottobre di Hamas si sia prestato ad una spropositata reazione israelita, giunta per ora alle 20mila vittime palestinesi; in realtà si sta manifestando l’animus, di cui il modus operandi è diretta conseguenza, dello stato ebraico, coltivato da decenni dall’ininterrotta odiosa guerriglia militare e diplomatica condotta dal martirologio del terrorismo vittimista islamico. Un animus scivolante nei decenni sempre più a destra, prima nell’intuizione poi nella decisione, di chiudere la questione drasticamente. C’è stata una Israele dei due stati; ora anche il più moderato della Kesset non ci pensa proprio. Il proseguimento del conflitto ha una sua fine certa, i confini di Gaza, quel territorio che a suo tempo non vollero gli egiziani e nemmeno gli israeliani. I palestinesi in parte rientreranno nella minoranza araba oggi presente in Israele, il grosso finirà in Egitto malgrado l’opposizione de il C l’insediamento di forze militari neutre, arabe, delle Ong, con caschi bianchi, arancioni ed a pois. L’unica presenza militare, di lungo periodo, rimarrà però quella ebraica. Dopodiché, cosa fatta capo ha.
I continui bombardamenti massicci di Gerusalemme in Libano sembrano star facendo finire la pazienza persiani di Hamas, Hezbollah ed Huthi yemeniti. Un giorno sì e l’altro pure, l’ayatollah minaccia interventi atomici e terroristici nella scomunica generale. Nel frattempo, Israele sta colpendo sempre più duramente i militanti di Hezbollah nel sud del Libano; una volta fattili arretrare dopo il fiume Litani, li spingerà ancora oltre. Crosetto prepara le valigie dell’Unifil, (United Nations Interim Force in Lebanon) i diecimila militari Onu in Libano di 47 nazioni diverse, che dal ’78 dovrebbero tenere lontani i contendenti. Intanto il traffico marittimo commerciale del -Mar Rosso viene colpito dal lancio di missili degli Huthi ed è costretto alla costosa la rotta che doppia il capo di Buona Speranza. Il risultato sarà che il deterrente di forze consistenti delle marine di Usa, Francia e Uk si addenserà prima nelle acque yemenite e poi nel golfo Persico. Minacce e scomunica passeranno rapidamente da Israele all’Occidente nelle maree dimostrative delle piazze musulmane, utili scaricatoi delle guerre annunciate che l’Iran si guarda bene dall’iniziare.
Sulla West Bank, la riva occidentale del Giordano dove inizia la Cisgiordania, l’esercito di Gerusalemme non interviene. Con sguardo paterno tollera i 591 attacchi semestrali, 95 mensili, tre giornalieri dei 700 mila coloni ebrei ai danni di 4 milioni di palestinesi. Le intemperanze, pur proibite, non vengono punite se non con qualche detenzione amministrativa. La convivenza non è nei piani degli occupanti nei dintorni di Nablus. Qui è stata distrutta una scuola palestinese riportante lo scudetto del finanziamento europeo. Negli ultimi mesi, lo dicono organizzazioni israeliane, quasi mille palestinesi se ne sono andati cacciati dai pastori beduini, mentre avanzano a vista d’occhio i più di cento insediamenti fortificati ebraici, protetti da armi civili e militari. L’odio innescato da Hamas facilita la futura annessione della Cisgiordania. Ostaggi o non ostaggi l’estensione del conflitto è nelle cose ed unilaterale.
Come un elefante nella cristalleria sta il destino del primo ministro Netanyahu, con il suo scontro con la magistratura, per ora messo da parte, nella patriottica unione indotta dal 7 ottobre. Finché ci sarà guerra, finché ci sarà Hamas, non c’è critica, pur aspra, che tenga. Nell’ostilità degli Usa e di parte dell’opinione pubblica israeliana, Netanyahu farà Israele più grande e più sicura senza palestinesi. L’11 settembre israeliano, dopo, aggiusterà le cose. Netanyahu resterà al suo posto. Le domande democratiche, considerate tanto cruciali, sono di fronte alla realtà insignificanti. Le risposte che desiderano sono tutte destinate a infrangersi nel nulla. Questa volta Israele chiude ogni partita. Solo una forza militare superiore, che in campo non c’è, potrebbe fermare Israele dal risolvere una questione che si trascina da 75 anni, dal ’48.
Altro che 73 giorni.
![Giuseppe Mele](https://www.milanopost.info/wp-content/uploads/2020/02/Giuseppe-Mele.jpg)
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.