A un anno dalla scomparsa di Joseph Ratzinger, ripercorriamo la sua figura e i suoi insegnamenti. Il cristianesimo non è in contraddizione con la modernità, ma ne è la risposta
La vicenda dell’uomo Joseph Ratzinger, prima ancora che quella del pontefice, porta con sé un significato per la nostra contemporaneità che richiederà ancora molto tempo per essere colto appieno e nel profondo. Se Karol Wojtyla è stato il gigante della fede, che ha dato voce e vittoria alla Chiesa del silenzio in un secolo in cui essa sembrava soffocare sotto un sistema ateo destinato apparentemente a progressive e magnifiche sorti, il professore bavarese è colui il quale ha risposto affermativamente alla domanda posta provocatoriamente da Dostoevskij: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?».
A un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, non rimane che credere alla divinità di Gesù Cristo – ha risposto in parole e atti Joseph Ratzinger. Dopo il culmine dell’Illuminismo, manifestatosi con la Rivoluzione francese nel 1789, e il crollo duecento anni dopo (nel novembre del 1989) delle ideologie totalitarie che avevano la pretesa di svelare e attuare le leggi della storia, l’allora Prefetto per la Dottrina della fede spiegò quanto l’esperienza stessa dell’uomo contemporaneo avrebbe dovuto condurlo all’ipotesi di Dio.
La libertà è esigente
Avrebbe dovuto, perché nella vicenda umana non c’è nulla di meccanico, come invece proprio le ideologie del Novecento avevano inteso. È sempre in gioco la libertà, infatti, come ricordò nel 1991 all’indomani della riunificazione della Germania («La libertà è esigente; essa non si mantiene in salute da sé, […]. Detto altrimenti: il crollo del marxismo non fa nascere di per sé una Stato libero e una società sana», cit. in La vera Europa. Identità e missione, Cantagalli, 2021, p. 128) e come ribadirà Benedetto XVI nella Spe salvi («la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. […]. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio», n. 24).
Tuttavia, proprio la condizione in cui versa l’uomo contemporaneo apre ragionevolmente alla supplica che Qualcuno dall’esterno di questa condizione venga a salvarlo. Del resto, le ideologie del XX secolo avevano riproposto il mito del messianismo secolarizzato e che campi di sterminio e gulag sovietici hanno irrimediabilmente sbugiardato. E la Chiesa dei martiri dei regimi politici, insieme al pontificato di Giovanni Paolo II, non hanno fatto altro che rispondere riaffermando il contenuto stesso del cristianesimo dei primi secoli, ovvero con la smitizzazione delle pretese salvifiche del potere, che non è l’orizzonte ultimo dell’esistenza di ciascuno.
Le tirannie del XX secolo
L’incontro con Cristo sfonda anzi gli stretti confini di una vita così concepita e apre a una dimensione che è metapolitica. Spiega ancora Ratzinger: «Il messianismo è essenzialmente modificato dalla figura di Gesù. Esso rimane politicamente rilevante, in quanto indica il punto, in cui il martirio diventa necessario e così viene precisato il limite dei diritti dello Stato. […] La storia è per così dire il regno della ragione; la politica non instaura il Regno di Dio, ma certamente deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo» (Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, San Paolo, 2004, p. 53).
È così che si aprono nuove strade per la testimonianza di fede cristiana, come quella di un padre Massimiliano Kolbe: «Nel 1933 la fede era stata allontanata con la forza dalla scena della responsabilità politica […]. La perdita del potere le aveva giovato. Era divenuta più pura. La speranza sua propria, che non poteva essere surrogata da alcunché, era fiorita nella sua invincibile grandezza proprio nei luoghi dell’assenza terrena di speranza, nell’orrore dei campi di concentramento e nei tribunali del potere dominante» (cit. in La vera Europa, p. 187).
Eppure, anche la più grande testimonianza di santità può essere accettata riducendola ad eroicità civile, facendola brillare nel firmamento delle svariate forme di Resistenza politica nella notte oscura delle tirannie disumane del XX secolo. È appunto quello che Ratzinger ha registrato nel passaggio di secolo, e per cui il crollo delle ideologie avrebbe potuto aprire all’ipotesi di Dio, ma senza alcun meccanismo che saltasse a piè pari la libertà umana. La diagnosi degli anni ’90 è impietosa: «L’immagine di Gesù – secondo la quale al posto di uno spirito impuro scacciato ne vengono altri sette molto più cattivi, se trovano la casa vuota e ben riassettata (cfr. Mt 12, 43 – 45 par.) – storicamente s’avvera senza posa. Chi rinuncia al marxismo non ha ancora trovato con ciò nuove fondamenta del vivere. La fuoriuscita da un’ideologia, un tempo ragione di vita, può molto facilmente capovolgersi anche in nichilismo, e ciò sarebbe allora veramente il dominio dei setti spiriti più malvagi» (La vera Europa, p. 128).
I “falsi infiniti”
I totalitarismi hanno lasciato nell’uomo colto, nell’occidentale dei nostri giorni, il sospetto e lo scetticismo circa la possibilità di trovare nuove fondamenta del vivere. E così l’Europa stanca, o “sazia e disperata” come il cardinal Biffi negli stessi anni ebbe a descrivere la sua Bologna, si è lasciata andare culturalmente alla dittatura del relativismo ed esistenzialmente alla ricerca spasmodica di piaceri da parte dei suoi abitanti. La società dei consumi non si è mostrata all’altezza delle attese suscitate dal crollo del comunismo e, anzi, il consumo di droga, una sessualità disordinata, gli algoritmi che governano le nuove tecnologie, il successo lavorativo ad ogni costo e un’istruzione performante hanno finito per sottoporre la persona a nuove forme di schiavitù.
«In realtà ora domina il dio-non senso», spiegò all’Università di Eichstätt il 26 novembre 1987. Ma proprio qui subentra la risposta affermativa di Ratzinger alla domanda di Dostoevskij: quello stesso uomo annichilito ha ancora un cuore che cerca un senso, che anela all’Infinito. Nel messaggio al Meeting di Rimini del 2012 Benedetto XVI ricordò quanto «questa tensione è incancellabile nel cuore dell’uomo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo», per cui anche i «“falsi infiniti” che possano soddisfare almeno per un momento» finiscono per lasciare insoddisfatti e aprire così a nuove possibilità di credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo. «E perciò vediamo come, proprio nelle nuove generazioni, questa inquietudine si risveglia di nuovo ed essi si mettono in cammino, e così ci sono nuove scoperte della bellezza del cristianesimo», rispose Benedetto XVI nel 2012 al gesuita padre Germano Marani che lo intervistava per il film “Campane d’Europa”: «Quindi, mi sembra che l’antropologia come tale ci indichi che ci saranno sempre nuovi risvegli del cristianesimo».
Essere lieti nella fede
A due condizioni. La prima la indicò ancora Ratzinger il 16 febbraio del 2000, presentando a Madrid una delle encicliche più felici del papato di Karol Wojtyla (e a cui non fu estranea la sua mano), cioè la Fides et ratio. Lì, l’allora prefetto della Dottrina delle fede precisò che «solo quando la fede cristiana è la verità, riguarda tutti» (Fede, verità e cultura. Riflessioni in relazione all’enciclica Fides et ratio) e quindi può risvegliare quella santa inquietudine per cui il cuore di tutti e di ciascuno riconosce di essere fatto per l’Infinito e che tutto il finito è troppo poco per lui. Se la fede cristiana diventa invece «semplicemente una variante culturale delle esperienze religiose dell’uomo», perderà il suo fascino e la sua capacità attrattiva, a prescindere dal contesto esterno favorevole o meno alla Chiesa.
La seconda condizione è che resista un piccolo gregge, che faccia toccare con mano l’Infinito e renda l’incarnazione di Dio contemporanea. E questa tematica è costante in tutta la produzione di Joseph Ratzinger. Dalla celebre conferenza radiofonica degli anni ‘60 spesso citata («Dalla crisi di oggi sorgerà una Chiesa che avrà perduto molto. Essa diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto da capo. […]. Sarà una Chiesa interiorizzata, che non si vanta del suo mandato politico e non flirta né con la sinistra né con la destra. […]. Questo cambiamento la renderà povera, la farà diventare una Chiesa dei piccoli», in Il tempo e la storia. Il senso del nostro viaggio, Piemme, 2017, p. 156), al dialogo con Marcello Pera, in cui insistette sull’importanza delle “minoranze creative”, cioè «uomini che nell’incontro con Cristo abbiano trovato la perla preziosa che dà valore a tutta la vita» e «attraverso la loro capacità di convincere e la loro gioia, offrono anche ad altri un diverso modo di vedere le cose e raggiungono tutti» (Senza radici, Mondadori, 2004, p. 110).
Fino alle riflessioni più personali dell’ultimo periodo nel monastero Mater Ecclesiae dopo l’epocale rinuncia al ministero attivo: «Vivo in una casa nella quale una piccola comunità di persone scopre di continuo, nella quotidianità, simili testimoni del Dio vivo, indicandoli anche a me con letizia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti nella fede» (Che cos’è il Cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, Mondadori, 2023, p. 160). (Tempi)
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