Nel 2022 sono state circa 800.000 le persone in cura presso i servizi di salute mentale pubblici e il disagio psichico e il consumo di psicofarmaci in Italia sono in continua crescita. In questo scenario il regista Francesco Munzi ha deciso di indagare la vita sospesa di sei ragazzi tra i venti e i trent’anni volontariamente ricoverati in due comunità psichiatriche della periferia romana, e di raccontarli in “Kripton”, nei cinema dal 18 gennaio. “Mi ha colpito un po’ la labilità del confine, molto labile, tra la cosiddetta normalità e il disagio psichico. Molti di questi ragazzi restano intrappolati in domande, grandi domande esistenziali che però sono anche le nostre, quindi però c’è chi ci rimane proprio impigliato”. Seguiamo i ragazzi nella loro vita quotidiana, ascoltiamo le loro riflessioni, veniamo coinvolti nelle relazioni con le famiglie, gli psichiatri, gli operatori. Il film di Munzi ci mette in contatto con chi soffre di un disturbo mentale e ci permette di esplorare in profondità l’essere umano. “Del mondo del disagio psichico se ne parla molto ma più a livello di numeri che non di una possibilità, un aspetto dell’umano. Invece, nonostante i grandi progressi che si sono fatti, dagli anni Settanta, Basaglia, tuttavia resta un mondo e un’area di cui ci si vergogna”. Rompere quell’isolamento è per me un aspetto molto importante: “Persiste la vergogna del fragile, senza arrivare agli estremi, perché appunto si va fuori dall’area performativa, dall’area del vincente a tutti i costi. Come se nella vita non ci potessero essere delle onde. E quindi questa cosa qui è l’elemento su cui si dovrebbe lavorare di più tutti quanti”.
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