Dalle foibe, una vita, un viandante, una lacrima nel tempo racconta…

Nel ricordo delle vittime delle Foibe, un racconto

Cultura e spettacolo Le storie di Nene

Vent’anni fa la Repubblica cambiava pagina con l’istituzione del Giorno del Ricordo, ogni 10 febbraio, per non dimenticare la tragedia delle foibe che ha provocato il dramma dell’esodo. L’Italia si è lasciata alle spalle oltre mezzo secolo di tabù di Stato dettato dalla realpolitik in un clima di guerra fredda. Tito aveva fatto dimenticare le sue mani sporche di sangue di italiani, ma anche sloveni, croati e partigiani serbi massacrati a guerra finita in nome di una pulizia etnica e politica.” (Biloslavo)

Nel ricordo, un racconto

Dalle foibe, una vita, un viandante, una lacrima nel tempo racconta…

Che buffo, dalla guancia morbida di un bimbo solo, la lacrima immobile aspettava una carezza, ma non era impaziente, testimoniava un desiderio, silenzioso, in attesa…e chi crede che le lacrime non abbiano vita, non sappiano gioire, rallentare un’emozione, gridare disperazione, non ha capito…Baciano il cuore, per declinare il miracolo del pianto, un fraseggio misterioso di note su un pianoforte di sensibilità. E’ un atto di fiducia nell’uomo, nella luce della verità, nella trasparenza dei sentimenti “Le lacrime sono lo sciogliersi del ghiaccio dell’anima. E a chi piange, tutti gli angeli sono vicini” scriveva Hermann.

Stava lì, nel solco di una ruga, incisa sul viso di un vecchio, troppo vecchio per badare a una lacrima cristallizzata dal tempo, la musica addormentata dai ricordi confusi e i sapori, i profumi dispersi in un vento lontano. Quella lacrima sa di un bambino nei campi sconfinati di un’infanzia già faticosa, le perle di sudore negli occhi, il canto sommesso del padre che arava una terra arida, su e giù, con il sole bollente o la pioggia che non sa aspettare. Nacque in un giorno di primavera, quando quel bimbo imparò la rinuncia, capì la povertà ed era un silenzio che chiedeva “perché?

E, testimone di una vita, quella lacrima racconta: “Perché…quanti perché…Perché quel bimbo in una giornata piovosa d’autunno guardava attonito suo padre, dai vetri di un bar pieno di fumo, crocifisso dalle corde su una sedia zoppa, processato in una lingua sconosciuta, i clienti ebbri di risate, accusato e deriso da sberleffi e la puzza di vino acetoso, nauseante? E quel padre indomito gridava “Sono italiano…la mia sola colpa è essere ita…, ma la voce veniva interrotta da un pugno? 1945, a Trieste. Nessuno si occupò di un bimbo di dieci anni. Solo.

Lacrime, eravamo in tante, inarrestabili, col sapore di una ferita lancinante. E attese quel padre per arare ancora la terra, seminare il grano, stringere tra le mani la sua mano callosa, ma dalle Foibe quel padre non tornò.

Mi nascosi in un angolo dell’anima, la notte mi risvegliavo disperata e poi quell’errare senza fine, le strade ad incrociarsi, a perdersi, ad incontrare case, balconi, fiori, carretti vecchi dall’uso, rumorosi, muli sbuffanti, donne e bambini che trasudavano miseria…Quel bimbo e la fame che divora la volontà, che annebbia l’orizzonte. Seduto in un viottolo, tese la mano per un pezzo di pane, gli occhi troppo asciutti respingevano il pianto. Là, poco lontano, un Circo accampato di zingari, preparavano lo spettacolo serale: poche apparizioni per offrire una risata, esercizi di un giocoliere stanco, la giovinezza di una trapezista senza paura e parole concitate, un’umanità senza definizioni, un abbraccio. Quel bimbo aveva trovato una casa. Uscii allo scoperto improvvisamente per accoccolarmi, piena di gioia, sul viso incerto e titubante del piccolo viandante.

In scena, tutta la famiglia in scena, un pirotecnico e magro spettacolo su un’altalena di rischio e di risate, gente che non voleva ricordare, che volava con quegli oh! di meraviglia, di stupore e tenerezza. Quel bimbo confuso e incantato da una magia che fioriva ogni sera, gli occhi bruciati dal sonno, si accartocciava ai piedi del nonno, il vecchio clown, il miracoloso autore di storie a volte così simili alla realtà. La notte mi chiamava, nel silenzio di un letto improvvisato sul camper dedicato ai bambini.

Mi chiamava con un sussurro dolce e dolente, quasi che il pianto potesse aprire una finestra di speranza, dopo il buio. Ed imparò l’arte di un pagliaccio di strada, agile nei giochi, un po’ acrobata, intuitivo e pronto con le battute, geniale negli scherzi a cascata e quel …“C’era una volta…” per narrare ogni sera una fiaba che si arrampicava in un mondo surreale, appesa alle nuvole della fantasia, una pochade di macchiette poetiche ed esilaranti, ma con il fardello della tristezza rubata. Ed era la sua specialità irresistibile quel trasformare, reinventare l’opacità buona delle favole tradizionali, l’assurdo che spingeva l’universo degli spettatori a ridere e ridere ancora…. Un pagliaccio, con i colori goffi e impossibili dell’arcobaleno, quasi un insulto alla dignità, con il pesante cerone a mimetizzare la stanchezza di certe sere, disegnato con estro su un viso naturalmente bello, il naso un palloncino rosso dispettoso.

Io annegavo in un mare di malinconia che trascinava ricordi ancora vivi, nel calore dell’anima che custodiva le mie ribellioni, la mia presenza. Al pubblico quel pagliaccio offriva una lacrima gigante disegnata con un vile pennarello, finta e inadeguata, immobile, un segno per dire che serve ridere sul dolore del mondo. Dicevano “Ehi tu, pagliaccio, facci ridere” e venne il giorno del rifiuto, la spasmodica voglia di essere solo se stesso, un uomo, semplicemente, un uomo nudo, senza sovrastrutture, alla scoperta di quel deserto dove abita la verità, come diceva Esopo.

E in quel pomeriggio accecante, sommessamente inumidivo i suoi occhi per il distacco, un singhiozzo, uno solo, quando scomparvero all’orizzonte le mani protese in un saluto. E quel viandante invocò la luna, una luna chiara di promesse, sincera, protettiva. E iniziò un lungo viaggio per sfogliare paesi, montagne, oceani e firmare idee, pensieri, incontri con una sola parola: libertà.

Andare…e sentirsi un gabbiano, un’aquila, una stella. Andare…e parlare col sole, col vento padrone, con gli alberi fieri, abbracciati nei lunghi viali ombrosi. Andare…e illudersi di amare una donna in una notte di magia. Andare…e scoprire l’immensità di un mare che cantava, solo per lui, nell’alba pigra e pallida di una giornata nebbiosa.

E poi fermarsi al suono sincopato di una band di strada, con la frenesia di una giovinezza acerba, con il talento dell’improvvisazione. E il jazz era la febbre della vita, l’attrazione del sogno. Ha il tempo di un passo svelto, di un battito accelerato del cuore. Fu amore incondizionato che fermava il tempo, ballava nell’anima, memorie liquide di emozioni, rose nel vento, la violenza del desiderio, il risveglio del sangue….Musica…La libertà di accarezzarsi, stordirsi come una farfalla in volo e sedare l’inquietudine e quel tarlo martellante di conoscere, di vivere, con una sonata dolce di Chopin. Qualche volta si esibiva ancora per un giaciglio e un pasto caldo, quando il gelo blocca i passi, la volontà.

Ma ancora andare…un vortice di birilli senz’anima, finti uomini indifferenti, a volte sprezzanti, lo squallore di giornate vuote e parlare con i bimbi sullo scivolo della speranza e saziarsi dei colori e profumi in un campo di viole, prendere a calci un cuore che pulsa di vita.

L’amica, l’unica amica, nelle sere di desolante solitudine ero io, silenziosa, lieve, rispettosa, amara come la delusione.

Andare sempre…con il tempo che non perdona, il freddo che scarnifica le ossa, la pioggia nemica, maciullato da una vergogna di inadeguatezza. Riposare: il deserto dove abita la Verità forse non esiste. E quel vecchio viandante si chiese “A che vale allora questa libertà?”

Gli tenevo compagnia nella culla che una ruga aveva scavato profondamente sul volto, senza chiedere, senza un lamento.

La cronaca scrisse: “Hanno trovato morto un clochard, su una panchina del Parco Sempione. Un vecchio clochard che sorrideva ancora”.

No, non era un clochard, era un uomo che nella libertà cercava la verità

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