Da tre lustri Berlinguer è ospite fisso nella casa degli italiani. Dal 2009 al 2016 tramite la direzione di Rai3 della figlia Bianca, dal 2016 al 2023con Cartabianca su Rai 3 e dal 2023 con l’analogo È sempre Cartabianca su Rete 4 entrambi programmi omnibus, a medesima redazione e conduzione dell’ex direttrice.
Il partito televisivo della Berlinguer ha perso il terzo canale storicamente comunista, da tempo ormai svuotato di identità ed oggi vale, nello share, percentuali da sinistra extraparlamentare, tra il 4% ed il 5%, surclassato dalla Tv postsinistra alla Floris. Il cognome (B-e-r-l-i-n-g-u-e-r, non è dolce da ripetere?). curato, dai parenti superstiti e dintorni, come cristallo fragile, patrimonio da proteggere, sotto eterna manutenzione, severo, austero, ombroso, mai anonimo, dal noto caratterino rischia il logorio per la permanenza televisiva che lo sottopone alla pioggia acida di un circo sragionato di svalvolati, epurati chiacchieroni e lampadati, montanari e soprattutto tantissimi filorussi stridentemente vicini all’Enrico.
A salvataggio del mito resta una lunga striscia di documentari (L’addio a Enrico Berlinguer dell’84 di registi vari, Berlinguer la sua stagione di Giannarelli dell’88, Berlinguer di Minoli del 2009, La voce di Berlinguer di Sesti del 2013, Quando c’era Berlinguer di Veltroni del 2014, Berlinguer quando c’era la politica di Sesti del 2014, Prima della fine. Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer di Rossi ed Arrivederci Berlinguer! di Mellara e Rossi del 2024oltre all’evocativo Berlinguer ti voglio bene di Bertolucci del’77) e di canzoni(I funerali di Berlinguer dei Modena City Ramblers, Svegliami dei CCCP, Robespierre degli Offlaga Disco Pax, Tropico del Cancro di Appino e Dolce Enrico di Venditti). I documentari si concentrano emotivamente sugli ultimi momenti di vita del segretario Pci, sulla presa diretta del malore al comizio di Padova e del ricovero, sulla solitudine di una segreteria iniziata nel ’72, su ricordi e lacrime dei militanti, sui giorni ante funerale, sulla voce di Berlinguer, sull’Archivio del Movimento Operaio e Democratico, su materiali inediti in anni di ricerche. Il focus resta, in una ritualità codificata, sull’imponente funerale a piazza San Giovanni, crisalide apologetica quarantennale all’altezza dei grandi omologhi comunisti di Lenin, Stalin, Breznev, Tito, Mao che però, al contrario del Nostro, furono tutt’uno con la gestione del potere.
Il movie Berlinguer La grande ambizione del 2024 malgrado l’interpretazione di Germano resta più docufilm che fiction.il regista, Segre, è documentarista di marginalità di etnie e culture (Lo sterminio dei popoli zingari del ‘98, Dio era un musicista del 2005, Come un uomo sulla terra del 2009, Il sangue verde del 2010, Mare chiuso del 2012, Indebito del 2013, l’Albania Ka Drita del 2015, Il pianeta in mare del 2019, Molecole del 2020 e Welcome Venice del 2021).Il film è pieno degli scatti (strage di Brescia, Allende, petrolchimico di Ravenna, servizi, Breznev, ma senza rubli, divorzio, Br, attentato bulgaro, eurocomunismo, compromesso storico e Moro) della scaletta tante volte ripetuta della narrazione sinistra dell’Italia della prima repubblica, le cui frazioni, fermezza o terrorismo, erano tutte marxiste (e tutte filopalestinesi) da far dire ironicamente ad Andreotti Questo è il vostro momento. La scaletta racconta l’Italia del perenne mancò la fortuna non il valore, dove l’auspicata terza via non si realizza per colpa delle influenze, buone e cattive, straniere, del sessismo, dell’edonismo, della democrazia bloccata, degli utopisti, estremisti ed opportunisti. Si chiude con il buio successivo al tragico destino di Moro, quello dove ancora, cecata, si aggira una certa sinistrai limiti della Sinistra italiana anni ’70. Non a caso, con Rossi, il docufilm è il genere più importante, recupero necessario di una storia non vissuta direttamente dalla generazione presente. Quello per capirci, in genere diffuso a piene mani da La7, che non ha nulla a che vedere con il documentario alla Bbc.
Proprio qui parte il lato fiction de La grande ambizione. È fiction l’assenza di Solidarnosc, del decreto di San Valentino, dei 40mila, di Craxi, degli orrori del comunismo, delle asprezze del Pci, della contestazione, della sinistra nel futuro; è fiction scambiare per futuro un programma, da anni ’30, fondato su autarchia, terzomondismo, egemonia operaia, crisi inevitabile del capitalismo, unione a tutti i costi delle forze popolari, linguaggio sovietico; è fiction mettere in bocca all’Enrico l’importanza della scuola, delle famiglie, della donna, della qualità della vita, del welfare, delle diversità, manca solo l’elettrico. È fiction la disattenzione sull’eredità tremenda del leitmotiv anticapitalistico austerità, cioè la povertà più nera, proclamata nel ’77 agli intellettuali all’Eliseo di Roma ed agli operai al Lirico di Milano. E’ l’austerità ad aver precipitato la sinistra nella crociata, naturalmente destra, anticorruzione e nel conseguente contraddittorio populismo.
Oltre la fiction, c’è il santino senza tempo che riscatta con la copertina di Time un grigio funzionario, sobrio, austero, triste, modesto, senza lascito di analisi acute, schiavo, senza la grandezza sinistra passata, del partito Assoluto e della ragion di Stato. Per completare il fake docufilm ci sarebbe voluto lo scoop della denuncia dell’assassinio, dato che il coccolone fu dovuto alle vittorie degli odiati socialisti. La denuncia toglierebbe però al popolo nostalgico i tratti da favola del mito. Un mito fondato su ossimori, viva la Guerra fredda e la sua fine, viva lo scontro e la collaborazione, viva l’eredità comunista e le sue nefandezze, viva la libertà ed il centralismo democratico.
L’ennesima beatificazione filmica postuma è stata celebrata con risalto alla XIX Festa del Cinema di Roma nel fortino della mitica egemonia ormai chiuso attorno a Festa, Auditorium e Morricone (sottratto impunemente all’owner Leone). Nella realtà spicciola, i miti di Pci e Togliatti sono imbarazzanti, quello di Gramsci è assediato dalla voglia di annessione dell’intellighenzia di destra nell’indifferenza del relativo elettorato. L’ultimo mito sardo viene consumato, giorno dopo giorno, talk dopo talk, dal facile ed enorme partito Tv che se ne legittima e se ne appropria. Il suo popolo nostalgico intanto avvizzisce drogato dal fake docufilm e si stringe attorno a bandiere d’antan. Aspettiamoci altri memoriali, altri documentari, altre coproduzioni con Agitprop (Bulgaria). Intanto l’altra kermesse romana, Più libri e più liberi, di medesimo stile e fazione, tutta dedicata alla donna, non ha trovato in 700 appuntamenti neanche uno strapuntino d’intervento per la Bianca, in gran spolvero alla prima dell’Auditorium ed anche alla proiezione speciale al Quirinale. L’amichettismo ha altri e nuovi lidi -miti- sardi come la Murgia. Forse nel prossimo fake ne verrà immaginato l’incontro con l’Enrico.
Giuseppe Mele
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.