Milano 1 Settembre – Quando il lavoro ammazza – non per sfortuna, ma perché sfrutta bisogni al limite della disperazione – quello è lavoro nero. Si può sezionare e rimescolare il concetto in molti modi, lo si può diluire con ogni benaltrismo, ma la sostanza resta. La morte della donna che insieme a migliaia di altri lavorava nei campi pugliesi per poco più di due euro all’ora, non lascia vie di fuga alla filiera che il lavoro nero organizza, utilizza, permette: dai negrieri in senso proprio (ormai maestri di burocrazia perché le carte risultino in regola), passando per imprese che di illegalità si nutrono; per le Procure che inseguono intrighi finanziari planetari anziché guardarsi attorno; per le istituzioni che reagiscono al cadavere mediaticamente rilevato – agli altri no – agitandosi e poi ri-acquietandosi nell’inconcludenza; per la grande distribuzione che, anziché qualificare, strangola i produttori. E non ci sono scusanti nemmeno per noi consumatori, quando dietro al prezzo implausibile di certi prodotti fingiamo di non vedere la schiavitù o, nei casi meno drammatici, la contraffazione.
La signora Paola Clemente è morta il 13 luglio sotto un telone in un vigneto. Il suo cadavere non è scomparso perché è italiana e ha una famiglia. Il suo lavoro consisteva nel rendere appetibili i grappoli d’uva, togliendo uno a uno gli acini più acerbi o già marciti. Anche questa è qualità della nostra agricoltura, ma la qualità ha un costo. E, si chiamino caporalato o no, i sotterfugi per evitare questo costo sono al contempo sofisticati e miserabili, astuti congegni burocratici e coercizione aperta.
Non si può più pensare che il problema sia pasticciare in fretta nuove norme, ovviamente complete di pene più alte. Forse funzionerebbero in un Paese normale, dove il lavoro ha un valore e dove non viene nemmeno in mente a un imprenditore di usare l’interinale e i voucher per camuffare servi della gleba. Leggi severe ed equilibrate, che selezionino e premino i produttori sani, servono ad affinare la qualità e la cultura di un tessuto imprenditoriale che ha già messo al bando le propensioni borderline o delinquenziali: ma nulla possono in contesti diffusamente illegali e insofferenti di diritti, contratti, contributi, sicurezza.
Viene anche da chiedersi quale immaginifica strategia spinga magistrati e politici a invocare le denunce dei lavoratori-schiavi. Le denunce sono lì da anni, scritte nei report sindacali, nelle statistiche socio-sanitarie, nei pulmini strapieni in giro prima dell’alba, nei ghetti fantasma del Foggiano o del Vibonese, nelle donne rumene schiavizzate nel Ragusano (si vedano anche, qui accanto, le stime di Caritas e Flai/Cgil). Ma se l’inchiesta sul lavoro nero in Puglia muove dall’acquisizione di articoli di stampa (come accade), significa che i braccianti sono messi male e i “caporali” possono dormire sonni tranquilli. Come per anni hanno dormito sereni i mafiosi e i corrotti del “Mondo di mezzo” romano.
Del resto, viviamo in un Paese in cui passano 20 anni tra l’ordine di demolizione di edifici abusivi nella Valle dei Templi e i primi colpi di benna su un muretto di recinzione. Anche le case, come il lavoro nero, non crescono da sole: qualcuno le disegna, le costruisce, qualcuno allaccia luce e acqua e così qualcuno ci guadagna. Se, poi, il tutto incredibilmente avviene in un sito archeologico, nell’alveo di una fiumara, su una ripa franosa, alle falde del Vesuvio o su una faglia sismica, allora i costi diventano di tutti. Come gli schiavisti dei campi fanno pagare il conto all’agricoltura moderna, efficiente e sana del loro confinante. Che tace.
I demagoghi agostani invocano leggi draconiane e le solite chiavi di celle da buttare, mentre i più cogitabondi annunciano controlli serrati, cabine di regia e tavoli interministeriali. Se mettessimo un carabiniere a guardia di ogni campo, impresa o studio professionale, di ogni Comune, di ogni ospedale, saremmo il Cile di Pinochet. In una democrazia, dovrebbero bastare buone regole e una forte cultura del rispetto delle regole. Ma l’illegalità è una gramigna che nasce dal basso e che finisce per esprimere rappresentanti che favoriranno quanti le regole vìolano, contandone avidamente i voti.
Lionella Mancini (Il Sole 24 Ore)
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