Milano 11 Settembre – Franco Interlenghi, morto ieri a 83 anni, è uno di quei volti in cui il cinema italiano si specchia quando vuole ricordare le ragioni del suo successo nel mondo e l’intensità di un «anti-divismo» che pure faceva i nostri film riconoscibili e unici.
Appena quindicenne confessa candidamente la sua età (era nato a Roma il 29 ottobre 1931) in una delle scene più intense del suo film d’esordio, «Sciuscià». Davanti alla cinepresa di Vittorio De Sica, che sta scoprendo il neorealismo e lo porterà fino all’Oscar nel 1947, un anno dopo le riprese, il piccolo Pasquale Maggi dichiara la sua età e la «ruba» all’interprete in erba.
Franco Interlenghi non doveva fare l’attore, De Sica lo aveva trovato sulla strada scegliendolo per la spontaneità e l’immediatezza: ma proprio queste doti gli diedero entusiasmo e determinazione, proiettandolo rapidamente nel piccolo olimpo dei «giovani e belli» della nuova generazione d’attori, lontana dai cliché e dalla formazione accademica. Così, appena tre anni dopo, Luciano Emmer lo vuole per «Domenica d’agosto» e gli consegna le chiavi della celebrità, ma ne scolpisce anche uno stereotipo che lo accompagnerà a lungo durante una carriera che divenne felicissima nei primi anni ’50.
Lo scelgono Soldati («La provinciale»), Fellini («I vitelloni»), Antonioni («I vinti»), Bolognini («Gli innamorati») tra il ’51 e il ’53 quando passa da un set all’altro, conteso perfino dalle grandi produzioni straniere che sbarcano nella Hollywood sul Tevere. Diventa così popolare che a scorrere la sua filmografia dei tempi d’oro si potrebbe farne un compendio del cinema italiano degli anni `oro, tra kolossal in costume («Fabiola»), commedie popolari («Don Camillo»), farse («Totò, Peppino e i fuorilegge»), film storici («Addio alle armi»), musicarelli («Canzoni di mezzo secolo»), racconto sociale («Processo alla città»).
A cavallo del decennio successivo è ancora il volto preferito di Rossellini («Il generale della Rovere») e Bolognini («La notte brava»). Ma Franco Interlenghi non è più un ragazzo e dà inizio a una nuova carriera, segnata dalla professionalità costruita da solo come caratterista di spessore. Così lo si ritrova prima al cinema e poi in televisione con un fulgido intermesso teatrale a cui lo aveva iniziato, già nel 1949, Luchino Visconti portandolo al centro del suo «Morte di un commesso viaggiatore».
Ed è in tv che una nuova generazione di spettatori lo scopre o lo ritrova dagli anni ’80 in avanti fino alle recenti apparizioni in serie di successo come «Il maresciallo Rocca» o «Don Matteo», dando la battuta con esperienza ormai consumata a Luigi Proietti o Terence Hill. Così si scopre che perfino i trentenni d’oggi conoscono il suo nome e magari lo riconoscono quando su qualche tv scorrono ancora le intense immagini di «Sciuscià». Perché la forza tranquilla di Interlenghi stava nello sguardo: lucido, sobrio, intenso e mai manierato, proprio come il cinema che lo aveva scoperto e che ne aveva fatto un divo della porta accanto. (La Stampa)
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