Milano 6 Novembre – Milano non è una soltanto, ce ne sono più di un milione. Tante Milano quanto il numero dei suoi abitanti. Almeno secondo Andrea Scarpa, giornalista classe 1965 fra i fondatori in Italia di Vanity Fair, che il 15 settembre di quest’anno ha dato vita a I Milanesi siamo noi – storie e facce di una città. Un nuovo progetto editoriale in collaborazione con NanoPress e che va ad affiancarsi alle numerose testate del Gruppo Trilud.
«Un mosaico digitale di interviste ai milanesi, nativi o adottivi, famosi o sconosciuti» lo definiscono Scarpa e i suoi collaboratori – fra cui spicca il nome del fotografo Andrea Colzani. Perché di storie, facce e sfaccettature questa città ne ha parecchie: attori, stilisti, chef e volti dello show business, ma anche e soprattutto baristi, prostitute e studenti fuori sede.
Dal racconto di Pasquale Di Molfetta, in arte Linus, che passa l’infanzia e l’adolescenza a vergognarsi del proprio nome da “terrone”, in particolare davanti agli impiegati dell’ufficio anagrafe di Paderno Dugnano, che glielo chiedono con insistenza facendo finta di non capire. Passando per Antonia Monopoli – nata maschio e di nome Antonio – che dopo anni di prostituzione diventa responsabile dello sportello Trans per Ala Milano Onlus. Fino ad arrivare alla bomber ventiquattrenne, Regina Baresi: figlia e nipote dei due mostri sacri dello stadio Meazza, con quel cognome ingombrante stampato sulla maglietta, in un’Italia e una Milano dove giocare a calcio nell’Inter, per una donna, significa guadagnare 300-400 euro al mese e che se «si mette a palleggiare in spiaggia ancora viene guardata come un marziano».
Ritratti che prendono vita su un sito web dal design minimale: niente orpelli a disturbare la lettura, scatti fotografici in bianco e nero, interviste mono colonna a domanda secca, dove la presenza dell’ex giornalista de Il Tempo e Vanity Fair (fra gli altri) quasi non si fa sentire. Mette il microfono alla bocca dell’interlocutore e lo fa parlare a tutto braccio: di politica, spettacolo, immigrazione, della “Milano che fu” – anche gli stereotipi sui “mitici” anni Ottanta e i soldi facili, fanno parte integrante della memoria collettiva.
«È una tendenza tutta italiana quella del giornalismo pedagogico che vuole sostituirsi alla scolarizzazione», dice Andrea Scarpa a Linkiesta, «il volere o dovere insegnare ai nostri lettori, al popolo, cosa pensare e quali opinioni avere – dopo che per anni di quello stesso popolo non ci siamo più occupati, scavandoci professionalmente la fossa». «La testata è partita da poco più di un mese e ho ricevuto telefonate da alcuni politici locali che mi chiedono come e dove abbia trovato queste storie, soprattutto quelle della gente comune. Io rimango allibito: basta fermarsi una mattina al bar e osservare per qualche minuto i movimenti di chi entra o lavora dietro al bancone. Per ogni persona che beve o serve il caffè c’è una storia che vale la pena di essere raccontata».
Nei giorni e nelle settimane in cui il derby fra Roma e Milano si fa sempre più aspro – a volte ridicolo – diventando scontro ideologico fra la capitale politica e quella “morale” (Cantone docet) – ci voleva un romano come Scarpa per raccontare Milano? Forse sì, «perché Milano è un contenitore di “italianità”, vario, non come Roma che ti copta in poco tempo, ti plasma a sua immagine e somiglianza. E perché chi arriva da fuori in questa città non la dà mai per scontata, si prende il tempo per osservarla e studiarla».
Oppure, come dice Matteo Caccia – lo speaker novarese di Radio2 in una delle interviste più interessanti –, «perché il milanese alla Jannacci non esiste più. Esistono solo persone del sud, del centro e del nord, accomunate dal fatto di vivere qui. In questa città di orfani, dove il rischio è di chiudersi dentro a dei micro-ghetti: quel locale, quella via, quella scuola, posti frequentati sempre dalle stesse persone». Una città che va un po’ smitizzata ripartendo dalla realtà: «È impossibile incontrare per strada un idraulico perché sono tutti giornalisti, pubblicitari, autori televisivi o grafici».
Se si chiede ad Andrea Scarpa di fornire una definizione della sua Milano risponde: «Un gigantesco tavolo da poker dove tutti i giocatori vengono a puntare le loro fiches». Fra quei giocatori c’è anche lui, il regista dell’operazione. Perché dopo “un’infanzia professionale” come redattore di cronaca nera e spettacoli a Il Tempo di Roma, dopo gli undici anni a viaggiare nel mondo per Vanity Fair, prima di chiudere il rapporto con la testata che aveva contribuito a fondare, anche lui si sta reinventando per raccontare Milano, con questa forma meticcia e spuria di cronaca locale: per metà diario di vita vissuta, per l’altra metà vox populi. Reinventarsi anche contro la grande illusione, molto giornalistica, che regna ai tempi di internet: credere che sia possibile conoscere il mondo intero solo allacciandosi a un wi-fi, mentre spesso le storie che più ci sono ignote si trovano a pochi metri dal portone di casa.
Francesco Floris (Linkiesta)
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