Milano 6 Novembre – Pochi di voi ricorderanno che anche nel Triveneto ci fu un’inchiesta per mafia. Un maxi processo. Aule Bunker. Imputati limitati nella loro partecipazione processuale. Evasioni. Complici nella polizia e nei servizi. Insomma, tutto il contorno: solo che il boss, l’ideatore ed il principale colpevole non aveva un nome meridionale. Era un cittadino della riviera, dal Venetissimo cognome di Felice Maniero, detto faccia d’angelo. Cosa c’entra lui con Carminati? Molto, moltissimo. Almeno da un punto di vista processuale. Perché quel processo di fine millennio diede l’esempio a tutti i successori in tema di associazioni mafiose atipiche. È, insomma, l’antenato di Carminati. E contiene in sé tutti i dubbi che stanno sollevando i legali degli accusati.
In sintesi, i complici furono presi tutti alla sprovvista. Certo, erano dei delinquenti, in molti hanno confessato. Ma nessuno di loro aveva mai avuto la percezione di essere una mafia. Mancavano, secondo tutti loro, i caratteri di dominio del territorio. Certo erano forti in alcuni settori. Ma essere mafiosi? Il sospetto che è sempre serpeggiato è che la Mafia del Brenta sia un sapiente costrutto elaborato da Maniero per ottenere quello che davvero voleva. Diventare un pentito. E poterne sfruttare i benefici. Da parte dei Pm, invece, c’era l’esigenza di costruire un sistema in cui inquadrare centinaia di reati e decine di delitti. Siccome gli unici che avevano le competenze per farlo erano alla DIA, la direzione investigativa anti mafia, applicarono la logica e gli schemi che meglio gli servivano. Maniero sparì dalla circolazione, la sua banda pure e il processo fu un successo. La giustizia aveva trionfato, no? Nì. Da una parte, di certo, il risultato era il migliore, dall’altro però si apriva la lunga stagione in cui tutte le vacche sono grigie ed in cui il reato più comune, quello usato come un’arma, è quello del concorso esterno in associazione mafiosa. Un altro costrutto, un’altra invenzione giurisprudenziale. D’altronde eravamo in emergenza, no?
Sì, ma in Italia nulla è più permanente dell’effimero. Così oggi assistiamo ad un processo per Mafia senza un morto, senza un tentato omicidio. Senza mezzo attentato. Con una cosca di funzionari e cooperanti. Che macina un sacco di soldi, per carità. Ma in cui il terrore è lo stesso che incute Samurai di Suburra. Qualcosa che resta in piedi finchè una tossica a caso non prende una pistola e non spara. Il maxi processo nell’aula bunker di Palermo comminò condanne per millenni. Qui se tocchiamo il secolo è grasso che cola. I protagonisti stanno trattando per avere pene sotto i dieci anni. Molti di loro rischiano di fare più carcere preventivo che non pena vera e propria. In un paese che sogna disperatamente degli eroi si deve accontentare di cattivi da soap opera. Er cecato. Buzzi. Un travet come Odevaine. Un oscuro burocrate. Manco mezzo gruppo di fuoco. Non so se questa verrà qualificata come mafia. Non so come finirà. So che non mi convince l’intero impianto. Mi pare figlio della spasmodica voglia di combattere draghi in una terra che produce al massimo geki.
Laureato in legge col massimo dei voti, ha iniziato due anni fa la carriera di startupper, con la casa editrice digitale Leo Libri. Attualmente è Presidente di Leotech srls, che ha contribuito a fondare. Si occupa di internazionalizzazione di imprese, marketing e comunicazione,