Non c’è più la sinistra tradizionale in Europa

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Milano 29 Dicembre – L’aria che tira in Europa è quella della fine del bipolarismo e dell’avanzata elettorale di forze che vengono genericamente bollate come “populiste”. O, in modo ancora meno rigoroso, come “forze anti-sistema”, quando invece questi movimenti danno l’impressione di essere comunque compatibili con le regole della democrazia. Definizioni che già di per sé tradiscono la difficoltà di dare un senso al cambiamento in atto, che nascondono l’incapacità di interrogarsi sulle cause dell’interruzione di un lungo un ciclo storico che ha iniziato a mostrare le sue crepe fino dalle elezioni del Parlamento Europeo del 2009.

La tradizionale dicotomia tra partiti democratico-cristiani e social-democratici, prolungatasi ben oltre la fase della ricostruzione post-bellica, ha lasciato il posto a una frammentazione che è, prima di tutto, la conseguenza della crisi dei partiti tradizionali e della richiesta di trovare nuovi canali dirappresentanza da parte di settori vasti di un elettorato sempre meno convinto delle ragioni che alimentavano la forza di democristiani e socialisti. Con questi ultimi a pagare il prezzo più grande. Ovunque ci si giri, si scopre che la parola più utilizzata per descrivere la loro parabola è “declino”. In Grecia, surclassati da Syriza. In Gran Bretagna, in preda a una sindrome confusionale che ha visto prevalere, con Jeremy Corbin, le tendenze più radicali. Oggi in Spagna, dove il partito sembra diviso tra la grande coalizione (ma non tanto grande, in realtà) con il PPE e l’alleanza con Podemos, che ha minato fortemente le basi del suo consenso. Ma anche in Germania, dove la SPD si è ridotta ad essere stabilmente il partner di minoranza di Angela Merkel e in Francia, dove, per impedire il successo sul Front National, i socialisti hanno addirittura ritirato dal ballottaggio alcuni dei loro candidati. Insomma, come forse accadrà anche in Spagna, sembra ormai che i socialisti possano svolgere un ruolo significativo solo se si adattano a sommare i loro voti a quelli dei moderati nella logica della difesa degli equilibri del passato. Rinunciando cioè a conservare la loro identità e a proporsi davvero come una forza maggioritaria, di governo. Forse contribuendo persino ad alimentare la retorica di una “casta” costretta sulla difensiva, e a fornire ulteriori argomenti polemici ai “nuovi”.
È, a ben vedere, quello che succede anche da noi. La peculiarità italiana è che il Pd la coalizione strutturale tra moderati e sinistra la realizza al suo interno e con pezzi provenienti dalla galassia ormai spenta di Fi. Con la netta egemonia della componente di origine democristiana – più nelle logiche di potere seguite che nell’ispirazione ideale – su quelle “socialiste”. Anche qui la rilevanza politica della sinistra riformista e la rappresentanza di ceti e culture che vi fanno riferimento nell’elettorato sono ridotte ai minimi termini. Il rischio forte è quello di un’implosione, di una disaffezione che Renzi sa di poter contrastare solo a costo di imporre, come ha evocato in queste ore,l’iper-maggioritario dell’Italicum, la camicia di forza che, in nome della stabilità e, prima ancora, della resistenza contro i “barbari” grillini, dovrebbe mantenere nel recinto elettorale dei democratici i voti più a rischio.
Nel declino dei socialisti c’è molto del logoramento delle basi stesse del riformismosocialdemocratico. Che era pur sempre una forma di revisionismo marxista. Quella teorizzata da Eduard Bernstein alla fine dell’Ottocento. Il suo paradigma era, in fondo, semplice e, allora, efficace:parlamentarismo, welfare state, nazionalizzazioni, partito di massa. Nessuna di queste componenti sfugge però, e non da oggi, all’usura del tempo. Perché i parlamenti non possono essere gli interlocutori delle istituzioni sovranazionali e dei poteri finanziari e non possono competere con i tempi attuali della comunicazione. Perché lo Stato sociale ha prodotto la “gabbia d’acciaio” intravista da Weber e ha generato costi insostenibili a carico del sistema. Perché la globalizzazioneha rotto gli argini di qualsiasi efficace politica industriale realizzata in un solo Paese. Perché la complessità sociale – il venir meno delle “classi” – e il prevalere dell’individualismo hanno spazzato via la vecchia idea di partito. Nel frattempo, nessuno ha pensato, o è stato in grado, di dare un senso nuovo alla parola socialismo. Consegnandola forse a un doloroso congedo.
Emilio Russo (L’Intraprendente)

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