Milano 25 Febbraio – Non è mai stato così difficile e pure costoso dare le dimissioni. Alla voce «semplificazioni» il ministero del Lavoro ha compilato un decreto, uno dei tanti in attuazione del Jobs Act renziano, che introduce un meccanismo diabolico in base al quale non è più sufficiente consegnare la lettera di dimissione al proprio datore di lavoro. Il divorzio, anche se consensuale, deve essere convalidato con una procedura telematica. Diversamente le dimissioni non sono valide. Paradossalmente non avrebbero validità neppure se venissero autenticate da un notaio che certificasse sia il contenuto sia l’ autenticità della firma apposta in calce. Accertando l’ identità del «licenziando».
Dal 12 marzo prossimo, in virtù di un decreto ministeriale a firma di Giuliano Poletti e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’ 11 gennaio 2016 chi volesse dimettersi è obbligato a seguire una procedura diabolica. Innanzitutto deve registrarsi sul portale internet Cliclavoro.gov.it compilando un modello predisposto per le dimissioni. Per farlo, tuttavia, deve essere in possesso del Pin (numero di identificazione personale) che attesta la sua posizione presso l’ Inps. Qualora non conosca il Pin deve registrarsi sul portale Inps.it e farne richiesta. Il codice gli verrà recapitato al domicilio di casa in busta chiusa, presumibilmente entro una settimana.
Se il plico non dovesse arrivare può sempre recarsi a uno sportello dell’ Inps e richiederne l’ emissione. A quel punto, col Pin in evidenza, l’ aspirante dimissionario può finalmente compilare il modulo, che è suddiviso in 5 sezioni, seguendo parro per passo le indicazioni del portale. La procedura telematica si conclude con l’ invio al proprio datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente del modulo compilato in ogni sua parte. La spedizione avviene attraverso un messaggio di Posta elettronica certificata (Pec in sigla) che partirà automaticamente una volta completata la procedura. La Direzione provinciale del lavoro ne riceverà notifica nel proprio «cruscotto digitale», mentre l’ azienda la riceverà sulla propria casella Pec. Sempre che ce l’ abbia. L’ unica prova tangibile in possesso del lavoratore sull’ avvenuta procedura di dimissioni telematiche è un documento in formato Smv che può salvare sul proprio computer.
Qualora il dipendente incontri difficoltà nel completare le dimissioni telematiche o addirittura non abbia accesso a internet (evenienza tutt’altro che improbabile), può sempre rivolgersi a un intermediario abilitato, nella fattispecie Caf, patronati e sindacati, mentre è escluso che si possa far aiutare dal datore di lavoro o da un commercialista. Il meccanismo diabolico, è stato concepito infatti per contrastare il fenomeno delle dimissioni «in bianco». Un foglio bianco che purtroppo alcune aziende fanno firmare ai neoassunti, riservandosi poi di compilarlo in vece loro scrivendovi appunto le dimissioni.
Intento lodevole, risultato disastroso. A parte la complessità della procedura, capace di mettere in crisi chiunque non abbia dimestichezza con la burocrazia online, il decreto ministeriale crea un mostro giuridico: per avere effetto la classica lettera di dimissione consegnata a mano al datore di lavoro deve essere convalidata telematicamente. In caso contrario il dimissionario risulterebbe ancora in forza all’ azienda presso la quale ha prestato fino a quel momento la propria opera.
L’ imprenditore che non dovesse ricevere il messaggio di Posta elettronica certificata non ha altro modo per formalizzare l’ uscita del dipendente che contestargli l’ assenza ingiustificata ed eventualmente avviare un licenziamento per giusta causa. In caso contrario il «presunto dimissionario» potrebbe tornare sulle proprie decisioni in qualunque momento. E rientrare in azienda chiedendo di riprendere il posto abbandonato.
Ma le sorprese amare delle dimissioni telematiche non finiscono qui. Qualora la separazione finisse male e dovesse partire il licenziamento per giusta causa il datore di lavoro sarebbe tenuto a versare il contributo Naspi che può arrivare a 1.500 euro. E il «dimissionando licenziato» avrebbe diritto a percepire a sua volta la nuova indennità di disoccupazione per 24 mesi. Soltanto in Lombardia si registrano ogni anno da 58mila a 60mila dimissioni. Se soltanto il 5% di queste si trasformasse in licenziamento, con una media di indennità Naspi di 1000 euro al mese per 24 mesi, i 3mila «dimissionandi licenziati» peserebbero sull’ Inps – ripetiamo: nella sola Lombardia – per 72 milioni di euro, più i contributi figurativi.
Per contro i dipendenti che decidessero di convalidare telematicamente le dimissioni ricorrendo però a un intermediario abilitato, lo dovrebbero poi pagare. Sostenendo così una specie di tassa sulla separazione consensuale dall’ azienda. Vale la pena di chiarire che né i datori di lavoro né le loro associazioni di categoria sono abilitati a svolgere la procedura online. La convalida, infatti, deve avvenire al di fuori dei consueti canali seguiti nei rapporti di lavoro. «Troviamo questa procedura assurda, dannosa e inutile», spiega a Libero Marco Accornero, segretario generale dell’ Unione artigiani della provincia di Milano che per prima ha lanciato l’ allarme, «poiché il fenomeno delle dimissioni in bianco è numericamente modesto e circoscritto e trovava già un efficace contrasto nelle nuove norme introdotte dalla riforma Fornero . Che prevedevano la conferma delle dimissioni. Siccome non ci risulta», conclude Accornero, «che tale procedura si sia dimostrata inadeguata a contrastare le dimissioni in bianco ne chiediamo il ripristino». In assenza di riscontri negativi al riguardo, in effetti, diventa difficile giustificare l’ enorme complicazione burocratica introdotta con la procedura telematica, le perdite di tempo che porta con sé ma, soprattutto, i costi che riesce a generare sia per le imprese sia per i dipendenti. Perché ancora una volta c’ è la dimostrazione che la burocrazia è cieca. E danneggia tutti indistintamente.
Attilio Barbieri (Liberoquotidiano)
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