Milano 23 Aprile – Ci sono storie che, semplicemente, rendono il Mondo che viviamo ogni giorno privo di qualsiasi significato. Piccolo, sino alla claustrofobia. Cosa può valere quello che costruiamo di fronte alla medaglia d’oro al valor militare, conferita per eroismo di uno studente diciassettenne che ha salvato la vita della sua compagnia difendendone la ritirata armato solo di mitra e coraggio? Io non credo esistano parole, oltre a quelle dei protagonisti. Questa è la memoria storica di un Mondo che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.
Cominciamo dall’inizio, dove è nata signora?
Maria: Sono nata nell’ultimo lembo di terra d’Italia, al di là dell’Adriatico. In Istria. Una terra bella e dannata, antica eredità Veneziana portata in dote all’Italia e più volte persa nello scorso secolo.
Ci racconti un po’ di lei.
Maria: Io ho visto due dittature, ed ho vissuto sulla mia pelle un odio criminale e razzista infinito. Quello contro gli Italiani. I primi diciassette anni della mia vita li ho passati sotto il fascismo. Era un altro mondo, rispetto a quello di oggi. C’erano altri valori. Non difendo certo il razzismo o la guerra. Ma non posso dimenticare il rispetto che c’era nella società. Poi è venuta la guerra ed ha spazzato via tutto. Prima di qualsiasi altra cosa gli Italiani dalle terre di Fiume. Quando avevo 17 anni i miei genitori non optarono. Si fecero sedurre dalle sirene rosse e decisero di restare nella Jugoslavia di Tito. E fu una scelta che abbiamo rimpianto per tanti, tanti anni. A quell’epoca in terra Jugoslava Italiano significava fascista. E ci trattavano di conseguenza.
Ha qualche episodio da raccontarci?
Maria: Due in particolare. E riguardano entrambi mio marito. Lui è un eroe di guerra. Eppure, alla fine del conflitto è finito in un campo di concentramento, detenuto a fianco dei Tedeschi contro cui aveva combattuto. La sua unica colpa? Aveva cercato la madre, per accertarsi che stesse bene…
Qui interviene il marito, Narciso, dopotutto la storia è la sua.
Narciso: Avevo discusso con il commissario politico. Io dovevo, capisce? Io dovevo sapere che mia madre e le mie sorelle stavano bene. Mi ero arruolato da partigiano a 17 anni. Credevo che avrei combattuto contro i Tedeschi che occupavano l’Italia. Ma mi ingannarono. Mi portarono via dalla linea del fronte, nell’interno. Non potei partecipare alla liberazione di Fiume, la mia compagnia fu dirottata su Trieste. Ma anche qui non ci fecero entrare. Per i Titini era inconcepibile che gli Italiani liberassero Fiume e Trieste. Così andai ad accertarmi che i miei stessero bene. Al mio ritorno in caserma fui arrestato ed inviato in un campo di concentramento. Dovevo starci un anno e mezzo. Ma dopo tre mesi, riconosciuto da un comandante, fui liberato.
E la seconda volta?
Maria: sapevamo che Tito passava da Fiume perché venivano a prendere mio marito la mattina. Lo chiudevano da qualche parte per tutto il giorno. Poteva solo fumare. Non gli era concesso nemmeno di parlare. Poi lo liberavano. Pensi quanta paura avevano di un popolo che in teoria avevano sconfitto. Anche se eravamo pochi, schiacciati dall’opprimente peso del regime, eravamo ancora così fieri che la nostra sola presenza minacciava il regime.
Narciso: e di quanto ti prelevavano da casa? Due volte in particolare mi sono rimaste impresse. In una, nonostante fossi un impiegato, fui mandato a fare il manovale a meno venti gradi per scavare un tunnel in un monte. E la seconda, nel 53-54 fui richiamato, in occasione del ritorno di Trieste all’Italia, come riservista e mandato al confine con l’Italia. Eravamo gli scudi umani del regime. Tito temeva una possibile invasione. Ed i primi a morire saremmo dovuti essere noi, gli Italiani.
Come siete tornati in Italia. Dico “tornati” perché, dopotutto, non avete mai smesso di essere Italiani.
Maria: ad un certo punto abbiamo capito che le nostre due figlie non potevano crescere là. Quindi una sorella di Narciso ha garantito per lui. E lui ha varcato il confine. Per finire in un altro campo di concentramento. La Risiera di San Sabba.
È il destino di mio marito. Due volte in campo di concentramento. Troppo Italiano per gli Jugoslavi, ma non abbastanza per gli Italiani. Lo osservarono per quattro mesi. Poi ne riconobbero le doti e lo lasciarono passare. Io però ero ancora indietro. Qualcuno sospettava che ci fossimo persino divisi. Io giocai su questo fatto, così un giorno andai a chiedere il passaporto. La scusa era riportare indietro mio marito. Giurai di tornare in ogni caso e riportare le mie figlie. Ovviamente non intendevo mantenere quella promessa. Così arrivai a Milano dove già abitava mio marito. Eravamo poveri. Non poveri come i presunti profughi di oggi con il telefonino ed i vestiti di marca. Ed eravamo soli. Non c’era i 35 euro al giorno per noi. Non eravamo nemmeno profughi. Ci sono voluti due anni per avere la cittadinanza Italia. Noi, figli d’Italia. Abbandonati di là dell’acqua ci siamo trovati qui, marchiati a vita dai comunisti. Privi di cittadinanza e di aiuto. Ma non ci siamo arresi. Dei figli di Fiume, di Istria e di Dalmazia. Dei figli di Pola, Ragusa e Rovigno. Dei figli di quelle terre così belle e così perdute non uno si è coperto di infamia tornando indietro. Abbiamo difeso l’onore della nostra nazione, sempre e con passione.
La storia di Maria e Narciso è molto, molto più lunga e complessa di così. Ma l’intervista la chiudiamo di comune accordo qui. Perché l’ultimo pensiero che resti al lettore sia questo. Non uno dei 350 mila esuli Istriano-Fiumano-Dalmati si è coperto d’infamia. Non uno. Hanno amato troppo questa terra, questa loro patria per cui sono morti, per cui hanno sofferto e per cui hanno lottato, per infangarla. Per mancarle di rispetto. Io di fronte a tutto questo posso solo inchinarmi. Sono certo che lo farete anche voi.
Laureato in legge col massimo dei voti, ha iniziato due anni fa la carriera di startupper, con la casa editrice digitale Leo Libri. Attualmente è Presidente di Leotech srls, che ha contribuito a fondare. Si occupa di internazionalizzazione di imprese, marketing e comunicazione,