Milano 24 Aprile – La notizia-che-non-fa-notizia: secondo Reporters sans frontières, che per i talebani del Fatto sarebbe “il termometro della libertà di stampa nel mondo”, l’Italia avrebbe perso altre quattro posizioni rispetto allo scorso anno, finendo addirittura al settantasettesimo posto, sotto Botswana e Nicaragua. Siamo meno liberi del Nicaragua e della Moldavia. Peggio di noi, nella Ue, solo Cipro, Grecia e Bulgaria. Primo dei 180 Paesi censiti la Finlandia, ultimo l’Eritrea. Come stare, nella classifica della A, tra il Frosinone e il Carpi. Ed ora la notizia-che-qualche anno fa –avrebbe fatto-notizia: secondo Reporters sans frontières, l’Italia avrebbe perso altre quattro posizioni rispetto allo scorso anno nella graduatoria dei Paesi con un sistema dell’informazione più o meno libero, finendo addirittura sotto Botswana e Nicaragua. Eccetera. Ma qualche anno fa, c’era ancora al governo Silvio Berlusconi, il tycoon impresentabile, la minaccia vivente per la libertà di stampa, l’uomo a capo di un impero economico capace di controllare radio, televisioni, giornali e persino case editrici un tempo di sinistra come Einaudi. L’uomo del regime, insomma. L’incarnazione di un disegno antidemocratico da bloccare ad ogni costo. Per evitare lo spettro di una retrocessione nella fascia delle nazioni comprese nella black list della democrazia. La notizia già allora avrebbe dovuto essere salutata con una leggera alzata di spalle, ma, fino all’avvento della nuova era renziana, avrebbe invece avuto l’onore della prima pagina sui quotidiani più autorevoli, sarebbe finita nei titoli dei telegiornali e sarebbe stata accompagnata dai commenti sdegnati di qualche Zagrebelsky di turno.
Ora invece, all’indomani della pubblicazione del nuovo rapporto, non è accaduto niente del genere. La notizia, allora, è un’altra: il doppiopesismo del mondo dell’informazione, della politica, di un’opinione pubblica portata ad esercitare il suo spirito critico a corrente alternata, disponibile a farsi strumentalizzare o forse semplicemente stanca, sempre più cinica o scottata dalla strumentalizzazione subita in passato. Leggete cosa dice l’insospettabile Camillo Davigo al Corriere della Sera: “La destra abolì il falso in bilancio, attirandosi la condanna della comunità internazionale. La sinistra, stabilendo che i reati tributari erano tali solo se si riverberavano sulla dichiarazione dei redditi, introdusse la modica quantità di fondi neri per uso personale. E nessuno obiettò nulla. Questo governo fa le stesse cose. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito; ma lei ha mai visto un pensionato che gira con tremila euro in tasca?”. E tutto tace. Lo stesso assordante silenzio che ha accompagnato la “rivoluzione di velluto” con cui Renzi ha risistemato le cose infarcendo il CdA della Rai di amici e di amici degli amici e, attraverso la “riforma” dell’ente radiotelevisivo, ha attribuito pieni poteri all’amministratore delegato, con licenza di garantire, attraverso nomine che più politiche di così non si può, il controllo delle reti. Non disdegnando giudizi sprezzanti e minacce da “editto bulgaro” ai conduttori sgraditi di talk show soporiferi. E che cosa sarebbe successo se ad approvare il Jobs act fosse stato un governo di centrodestra, se Berlusconi avesse usato nei confronti dei sindacati i toni sprezzanti di Matteo Renzi, se si fosse spinto a lodare qualche amico imprenditore mentre spargeva mance a destra e a manca rinviando sine die il rinnovo dei contratti di lavoro? Immaginiamolo: le barricate? E se avesse svillaneggiato le Regioni e i loro presidenti – loro, va detto, eletti dai cittadini, a differenza del Presidente del Consiglio -, come Renzi ha fatto dopo il referendum della scorsa settimana? Manifestazioni sdegnate, accuse di eversione. Come quelle che certo sarebbero state rivolte al Cavaliere se avesse provato a manomettere l’impianto costituzionale come sta facendo lo statista di Rignano, o a far approvare una legge ipermaggioritaria – che la Legge Acerbo, al confronto, era un virtuoso esercizio di pluralismo – brandita quotidianamente per minacciare la futura irrilevanza delle opposizioni? Non osiamo neppure immaginarlo. Altro che i calamai tirati da Giancarlo Pajetta contro i democristiani in Parlamento nel “53. E l’astensione sul referendum? Proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto se Berlusconi si fosse azzardato, da capo del governo, a invitare ad astenersi. Ecco, è la prova provata, definitiva, del suo disprezzo per i cittadini, per la democrazia, avrebbe urlato qualcuno.
E con il conflitto di interessi come la mettiamo? La vera zavorra dei governi di Berlusconi, l’oggetto – insieme con le strampalate abitudini sessuali, comunque privatissime, del Cavaliere – di costose intercettazioni e di continue interdizioni. Come un Re Mida alla rovescia, per l’uomo di Arcore, ogni cosa venisse toccata, c’era sempre qualcuno pronto a sbracciarsi in difesa dei principi della Repubblica di Platone. Adesso l’ingombrante famiglia della Boschi o della Guidi sono accidenti di cui liberarsi alzando un po’ la voce contro il “giustizialismo”. Anche perché, non si sa mai: se non a Berlino, c’è pur sempre a Potenza o giù di lì qualche giudice impertinente. In ogni caso, il “giglio magico” fiorentino non si tocca. Anche quando c’è qualcuno non proprio al di sopra di ogni sospetto. Cosa sarebbe accaduto se Berlusconi avesse messo un suo amico a capo delle spie informatiche? Apriti cielo: si sarebbero certamente evocati scenari da DDR. Invece, dopo un lungo braccio di ferro – perché qualcuno che abbia ancora qualche scrupolo dalle parti del Quirinale pare che sia rimasto –, Renzi ha deciso di tirare diritto. Tanto, non sembra ci sia qualcuno in grado di fargli pagare pegno. E la campagna acquisti? Beh, amici, un conto è Razzi: quello si può tranquillamente dileggiare e accusare di essere una volgare macchietta, un voltagabbana per interesse. Verdini e le altre decine di parlamentari eletti nel centrodestra e passati con il nemico sono invece dei patrioti. Fermiamoci qui. Perché, come italiani, come opinione pubblica, come “società civile”, rischiamo di fare davvero una brutta figura. Di stare più giù, molto più giù davvero, anche del Botswana
Emilio Russo (L’Intraprendente)
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