“Ho imparato ad amare il tempo per quello che ti può dare”: la storia di Zelinda

Approfondimenti Le storie di Nene

Milano 27 Aprile – “Ho imparato ad amare il tempo per quello che ti può dare. Per quel sussurro d’amore che è la vita, ogni giorno, ogni ora. Ma ci vuole pazienza per imparare. E ci vuole ironia e intelligenza e buon senso. La vecchiaia è come il sangue che scorre, che non si ferma mai, nonostante i dolori e le gioie, nonostante il tempo che passa.”

Zelinda ha il sorriso buono dei suoi ottant’anni vissuti con dignità e rispetto, ha le mani ruvide di fatica, la tenerezza negli occhi. Una tenerezza antica distaccata e partecipe di chi, per così dire, ne ha viste tante, ma ha conservato lo stupore di un incontro.

“La mia storia è semplice, una delle tante, una di quelle che non si raccontano perché uguale a tante altre..Mio padre era un contadino a ore, in Emilia, in un piccolo paese vicino al Po. La precarietà era scandita dalla fame, da quel freddo che era nebbia e ghiaccio, con gli zoccoli duri di legno e di vergogna, anche d’inverno, con quella bambola di pezza senza colore, senza occhi, per i tanti giorni di giochi, accanto alla stufa. Avevo dieci anni, quando mio padre fu assunto alla Pirelli con la raccomandazione di un parente che già viveva a Milano. E ci assegnarono una casa, questa casa, spiegandoci che poteva durare tutta la vita. In casa si favoleggiava di comprare mobili e tovaglie in quantità, di andare al mare con la colonia, di comprare il pane tutti i giorni e, forse, alla domenica, anche la carne per il brodo. Una vita da privilegiati con i gerani e il rosmarino sul balcone, un vestito nuovo, le scarpe come le signorine delle riviste, i guanti di lana. Nel cortile tre alberi mi ricordavano i miei pioppi, ma niente rimpianti..”Qui, diceva mio padre, c’è il futuro”

La bambola di pezza fu sostituita da una bambola di gomma, le illustrazioni dei giornali diventarono quadri ed io ero quasi felice quando, la sera, mia madre preparava la pastasciutta per tutti e, a volte, c’era un pezzo di formaggio da dividere rigorosamente in parti uguali. L’aria cantava la speranza. E il tempo scandiva la primavera di una rinascita che era negli occhi e nella volontà di fare. A tredici anni andai a lavorare in una fabbrica di cuffiette di gomma vicino alla stazione centrale, perché Milano ti insegna che il lavoro è importante e devi tenerlo caro. Al ritorno aiutavo mio padre nell’orto, il più bello e rigoglioso degli orti che ci fossero in via Ponale. Perché venivamo dalla campagna, perché non importava la fatica, perché negli orti si rideva, si raccontava la vita, si ritrovava un po’ la goliardia emiliana. E il sussurro della giovinezza regalava la fantasia del sogno e dell’amore. Sposai a vent’anni il bello del quartiere: cantava nelle osterie dei Navigli le canzoni milanesi, con una chitarra un po’ stonata, la fierezza dell’invincibile, la dolcezza di una malinconia mai vinta. Con gli occhi verdi striati d’oro, la voce modulata dall’emozione, le mani grandi dell’operaio specializzato che, poi, era il suo mestiere. Morì in un incidente con la sua Lambretta quando ancora non erano state pagate tutte le rate. Mi lasciò due figlie da crescere ancora bambine. Ma non c’era tempo per fermarsi: iniziai un doppio lavoro e, dopo la fabbrica, diventai giardiniera, sarta, infermiera…qualsiasi cosa pur di guadagnare. Oggi la mia casa, sempre la stessa casa popolare, è ricca di ricordi e di colori. Ma, a volte, vorrei risentire il mio Po, quando borbottava nelle sere dopo una giornata di pioggia, mentre i pioppi fischiettavano al vento le loro canzoni d’amore.”

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