Milano 25 Maggio – L’abbraccio di Milano ai “grandi” che qui hanno vissuto e a cui è stata dedicata una targa per ricordare. Sul blog di Giannella Channel, il giornalista Roberto Angelino ripercorre Milano e la sua storia attraverso le “memorie” dei personaggi più famosi, sui muri della città. Un modo per ripensare al prestigio di una Milano da sempre “capitale” dell’arte, della musica e dell’economia. Proponiamo ampi stralci dell’interessante ricerca documentata in originale dalle foto.
Strabiliante Milano! Chi potrebbe mai pensare che una targa su una casa di ringhiera a Porta Volta, in viale Pasubio 10 angolo via Maroncelli, svela che proprio lì nel 1933 viveva e lavorava il futuro leader rivoluzionario vietnamita Ho Chi Minh. Che nel 1913, a 23 anni, era diventato pasticciere sotto la guida del grande chef Auguste Escoffier all’hotel Carlton di Londra e a Milano (dove si rifugia per sfuggire a un mandato d’estradizione francese più che per “missioni internazionali in difesa della libertà dei popoli” come pomposamente recita la lapide) decide di mettere a frutto quell’esperienza lavorando come lavapiatti e poi aiuto-cuoco nell’Antica Trattoria della Pesa, aperta dal 1880 fino a oggi e dove nel 2009 il premier Silvio Berlusconi ha portato in “pellegrinaggio” il presidente vietnamita Nguyen Minh Triet in visita di Stato in Italia.
A proposito di rivoluzionari, addirittura due targhe (una in marmo del 1948 e l’altra in bronzo del 1987) indicano che al n.23 di Portici Galleria, con affaccio su piazza del Duomo, Anna Kuliscioff ha abitato al quarto piano con l’amato Filippo Turati dall’autunno 1891 (entrambe le lapidi dicono però 1892) fino alla morte, nel 1925. Ebrea russa anarchica e socialista, la Kuliscioff è ginecologa ma viene respinta dall’Ospedale Maggiore “perché donna” ed è costretta a lavorare come “dottora dei poveri” a Porta Garibaldi.
Poco lontano da casa Kuliscioff, in via Grossi 2, a venti metri da dove nel 1867 verrà inaugurata la Galleria Vittorio Emanuele II, è ospite dal 30 luglio al 26 settembre 1823 Giacomo Leopardi, messo sotto contratto dal tipografo Antonio Fortunato Stella (futuro editore delle sue Operette morali) per curare due antologie letterarie e un commento al Canzoniere petrarchesco.
Un’altra targa ricorda che lo stesso Francesco Petrarca ha soggiornato a Milano per sei anni dal 1353, in via Lanzone 53 dove oggi c’è il collegio delle Orsoline. Il poeta arriva da Avignone su invito dell’arcivescovo Giovanni Visconti, signore della città, che gli affida delicate missioni diplomatiche. E ama sostare nella vicinissima chiesetta altomedioevale di Sant’Agostino, di fronte alla basilica di Sant’Ambrogio. D’estate sfugge alla canicola rifugiandosi nel buen retirodella Certosa di Garegnano, eretta pochi anni prima, nel 1349, dove ora c’è viale Certosa, oppure si isola a scrivere in lingua volgare parti delCanzoniere nell’amata e solitaria cascina Linterno a Quarto Cagnino, unagrangia del XII secolo legata ai Templari in via Fratelli Zoia 194, oggi in piena città (vicino allo stadio di San Siro) ma all’epoca in aperta campagna. Nel 1358 Petrarca è costretto a lasciare Milano, diretto a Padova, per sfuggire alla peste.
Si diceva degli errori sulle targhe. Ne segnaliamo altri due: il primo, veniale, sta sulla lapide dal 2006 in via Borgonuovo 20, a Brera, sulla casa dello scrittore Riccardo Bacchelli di cui è sbagliata la data della morte, posticipata di un anno (1986 invece di 1985). L’altro strafalcione, assai più grossolano, è invece sulla targa che dal 1882 indica il palazzo di via Cantù angolo piazza Pio XI, davanti alla Pinacoteca Ambrosiana, dimora di Amatore Sciesa, quello della storica frase “Tiremm innanz!” pronunciata passando proprio davanti a casa prima di essere fucilato dagli austriaci nel 1851: sul marmo il suo nome è misteriosamente diventato Antonio!
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Dai 15 ai 21 anni, cioè dal 1894 al 1900, un altro insospettabile risiede a Milano con la famiglia, in via Bigli 21 angolo via Manzoni, come certifica una lapide sul palazzo. È Albert Einstein il cui padre Hermann (oggi sepolto al Monumentale) era emigrato da Monaco di Baviera per avviare nel 1889 una ditta di motori elettrici e dinamo in via Antonio Lecchi 16, in zona Naviglio Pavese. Il futuro Nobel per la Fisica 1921 ama la città, ma soprattutto le solitarie camminate nella Pianura Padana: una volta attraversa addirittura l’Appennino a piedi, con una lunga marcia da Voghera a Genova.
Altra scoperta inaspettata: dietro a piazza Duomo, in via Armorari 4 angolo via Cesare Cantù, nel palazzo all’epoca temporaneamente trasformato in ospedale dalla Croce Rossa statunitense, nell’estate 1918 trascorre tre mesi di convalescenza dopo essere stato ferito dagli austriaci a Fossalta, lungo l’argine del Piave, uno dei tanti eroici “ragazzi del ‘99”: il volontario barelliere Ernest Hemingway, futuro premio Nobel 1954. E in corsia si innamora di una deliziosa infermiera, l’americana d’origine tedesca Agnes von Kurowsky, che alla fine non mantiene la promessa di sposarlo. La loro passione ispirerà nel 1929 uno dei romanzi più celebri di Ernest, Addio alle armi.
A Milano hanno vissuto a lungo altri due Nobel per la Letteratura: in corso Garibaldi 16 il ragusano di Modica Salvatore Quasimodo (premiato nel 1959), che dal ’41 fino alla morte nel 1968 insegna Letteratura italiana al Conservatorio Verdi. E in via Bigli 15 il genovese Eugenio Montale(premiato nel 1975), assunto a 52 anni nel 1948 come redattore ordinario al Corriere della Sera.
Arturo Toscanini vive in via Durini 20, dietro a San Babila, dal 1908 al 1957 (con la sola interruzione di un periodo trascorso in America per ragioni politiche durante il fascismo) nel seicentesco Palazzo Mombelli l’unico in città con un fascinoso balcone andaluso in ferro battuto sopra al portone.
Il direttore d’orchestra lascia l’appartamento solo per andare a lavorare alla Scala, prendere un caffè con Giuseppe Verdi al bar Zucca in Galleria o recarsi in visita dall’amico avvocato Luigi Ansbacher, docente alla Bocconi, appassionato di musica classica e quinto presidente dell’Inter, dal 1913 al ’14. Toscanini muore il 16 gennaio ‘57 a 90 anni a Villa Pauline, la sua casa a Riverdale, sobborgo di New York. Due giorni dopo la salma viene traslata nella cappella di famiglia al Monumentale e i milanesi assiepati in piazza Scala ascoltano dalle porte spalancate del teatro, in un surreale silenzio da pelle d’oca, l’orchestra scaligera che in sua memoria esegue senza direttore la Marcia Funebre per la morte di un eroe dalla terza sinfonia di Beethoven, l’Eroica.
In via Solferino, ma al civico 27, c’è anche la prima casa (dal 1887 al 1900) di Giacomo Puccini, poi trasferitosi, sempre in affitto, di fianco alla Scala, in via Verdi 4, all’ultimo piano del quattrocentesco Palazzo Talenti. In effetti il compositore aveva già abitato a Milano da ragazzo, quando (dal 1880 all’83) frequenta il Conservatorio e divide soffitte o camere ammobiliate con altri studenti squattrinati (per un po’ anche con il livornese Pietro Mascagni, più giovane di cinque anni) in vicolo San Carlo, poi in piazza Beccaria 13, corso Monforte 26 e via Zecca Vecchia 10. Cena sempre in via Speronari, dietro via Torino, all’osteria Aida (l’unica dove gli fanno credito) e alla mamma scrive: «Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni e la pancia è soddisfatta». Nel 1901, all’Esposizione Internazionale nei Giardini pubblici di Porta Venezia scoppia la sua passione per le automobili con l’acquisto di una De Dion Bouton 5 CV, sostituita nel 1903 da una Clément Bayard, poi da una Sizaire-Naudin, una Isotta Fraschini e varie Fiat. Ma sono tutte inadatte per le amate battute di caccia e quindi Puccini, ormai celebre, chiede a Vincenzo Lancia di realizzargliene una per muoversi sui terreni più difficili: da Torino riceverà quello che si ritiene il primo fuoristrada italiano, l’antenato dei suv, con telaio rinforzato e ruote artigliate. Una sera del 1903, sulla statale Sarzanese vicino a Lucca finisce in un fosso e si frattura la tibia destra, ma la sua passione per i motori resterà immutata sino alla morte, avvenuta nel ’24 a Bruxelles.
Un incidente automobilistico nel 1908 cambia invece radicalmente la vita di Filippo Tommaso Marinetti (c’è una lapide in corso Venezia 23 dove nel 1905 ha fondato la rivista Poesia, organo ufficiale del Futurismo): appena fuori Milano esce di strada con la sua Isotta Fraschini per evitare due ciclisti. Ma da questa disavventura rinasce un Marinetti tutto nuovo, d’assalto, che dedica il Manifesto Futurista (scritto proprio nella sua casa di corso Venezia) a chi ama modernità e pericoli, temerarietà, impegni eversivi, militarismo, “belle idee per cui si muore”, distruzione dei musei, lotta al moralismo e anche (sic!) “disprezzo per l’immagine stereotipata della donna ottocentesca”.
A Milano il milanesissimo Alessandro Manzoni è ricordato da parecchie targhe sui palazzi, da quello in via Visconti di Modrone 16 (dov’è nato nel 1785) fino a quello in via Gerolamo Morone 1 (dov’è morto nel 1873), la sua casa-museo da poco restaurata a due passi dalla Scala.
Una curiosità: prima dei vent’anni l’autore dei Promessi sposi si appassiona forse un po’ troppo al gioco d’azzardo, che pratica nel ridotto della Scala, un vizio a cui sarà costretto a rinunciare dopo un’avvilente ramanzina in pubblico di Vincenzo Monti. Manzoni muore a 88 anni nel 1873 per una meningite, conseguenza di un trauma cranico con perdita di sangue dopo una caduta su uno scalino della chiesa di San Fedele (nell’omonima piazza dietro a Palazzo Marino, dove dal 1883 troneggia la sua statua in bronzo, opera dello scultore Francesco Barzaghi).
Entrato a Milano per la prima volta nel maggio 1796, Napoleone Bonaparte dimora con i suoi generali e la moglie Giuseppina a Palazzo Serbelloni in corso Venezia 16 (fino al 2010 sede del Circolo della stampa). Nel 1805, in Duomo, si proclama re d’Italia ponendosi sul capo la corona ferrea di Carlo Magno, poi va a vivere nella reggia di Monza e lascia la Villa Reale di via Palestro al vicerè Eugenio Beauharnais, figlio di primo letto di Giuseppina. Ma resta comunque legatissimo alla città e ai milanesi, ai quali regala, oltre a molte innovazioni urbanistiche, un po’ di frescura estiva facendo piantare migliaia di platani, i suoi alberi preferiti. Nel 1805 ordina di completare la facciata neogotica del Duomo (ci penserà l’architetto Carlo Amati nel 1813) però in cambio esige una statua sulla cattedrale che lo ricordi. Di Napoleoni santi non ce ne sono ma per sua fortuna l’arcivescovo ambrosiano Giovanni Battista Caprara scopre che tra i Martiri di Alessandria d’Egitto del IV secolo, celebrati dalla Chiesa il 2 maggio, oltre a Saturnino, Germano e Celestino c’è anche San Neopolo, nome così simile a quello del nuovo re e quindi promosso su due piedi San Napoleone, da festeggiare il 15 agosto, proprio il giorno in cui lui è nato. E così una statua di San Neopolo-Napoleone scolpita da Giuseppe Fabbris finisce nel 1811 su una guglia del Duomo, la G91, verso il lato sud, all’altezza della terrazza centrale.
A Milano soggiorna più volte anche Wolfgang Amadeus Mozart. La prima dal 23 gennaio al 15 marzo 1770, ospite con il padre Leopold del governatore conte Karl Joseph von Firmian in piazza San Marco 2, nella canonica dei Padri Agostiniani, dove oggi c’è il liceo Parini. L’enfant prodigeaustriaco (che a Milano tutti chiamano “Volgango Amadeo”) ha 14 anni e una notte viene svegliato dai fastidiosi miagolii dei gatti randagi di San Marco. Ma non si scompone, anzi li trasforma in arte con un breve estemporaneo componimento al quale s’ispirerà anni dopo per far miagolare una micia canterina nel divertente duetto Nun, Liebes WeibchenKV 625/592A.
Tre targhe confermano lo stretto rapporto tra Milano e un altro colosso della musica, Giuseppe Verdi. La prima è al Carrobbio, in via Cesare Correnti 15, dove il ventiseienne compositore va ad abitare nel 1839 con la moglie Margherita Barezzi e il figlioletto di un anno, Icilio. Entrambi muoiono pochi mesi dopo e lui, solo e disperato, trasloca in Corsia dei Servi, l’attuale corso Vittorio Emanuele, in un palazzo poi distrutto dalle bombe nel 1943. Medita il ritiro, ma ci ripensa e compone il Nabucco, la sua terza opera, che il 9 marzo 1842 lo consacra alla Scala alla presenza di Gaetano Donizzetti. La seconda lapide sta in via Manzoni 29, sulla facciata del Grand Hotel Et De Milan (all’epoca Albergo Milano) che dal 1872 lo ospita quand’è in città, nella suite 105, dove muore il 27 gennaio 1901, sei giorni dopo un ictus cerebrale, con i milanesi che in segno di rispetto hanno coperto di fieno il pavè per attutire il rumore delle carrozze. Pochi sanno che Verdi è sepolto a Milano con la seconda moglie, la soprano Giuseppina Strepponi, in fondo al giardino della Casa di riposo per musicisti da lui voluta in piazza Buonarroti 29 (è aperta al pubblico ogni giorno dalle 8.30 alle 18). La terza lapide attesta che Vittorio Emanuele III e la regina Elena proprio lì gli hanno reso omaggio l’8 ottobre di quello stesso 1901.
A pochi metri dalla tomba del compositore, in via Buonarroti 38, una targa ricorda dove sorgeva la villa abitata dal 1950 al 1960 da Maria Callas col marito Giovanni Battista Meneghini, poi lasciato per Aristotele Onassis (che la invita sul suo yacht Cristina, in una crociera dove c’è anche Winston Churchill): dalla passione con l’armatore pare sia nato nell’aprile del 1960 un figlio, Omero, morto quasi subito per insufficienza respiratoria e sepolto a Bruzzano, nella periferia nord della città. Il soprano d’origine greca adora i dolci e appena può va a farne una scorpacciata daTaveggia o da Cova, ma tra il 1952 e il ’57 si mette a dieta, calando da 92 a 54 chili. Cena quasi sempre al Biffi, dépendance scaligera, dove il proprietario, anche se il locale è pieno, lascia sempre libero il “suo” tavolo. Una sera, complice il sovrintendente Antonio Ghiringhelli, nasce una grande simpatia con un altro habitué del locale, il direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli.
Chiudiamo con la scritta forse più curiosa sugli edifici milanesi, quella di Villa Simonetta in via Stilicone 36, alla Bullona, oggi sede della Civica scuola di musica Claudio Abbado. Dice : «ECO che ripete in un momento tranquillo per ben 40 volte la voce e un colpo di fucile 75 volte» e si riferisce al fenomeno acustico di riflessione delle onde sonore che rese famoso l’edificio già nel Cinquecento ed è stato confermato anche da Stendhal nel 1817. Proprio quello stesso anno, in una Milano dominata dagli austriaci, sessanta goliardici figli di papà danno vita alla Compagnia della teppa, che si chiama in questo modo perché all’inizio le riunioni si tengono nelle gallerie sotto al Castello Sforzesco ricoperte di teppa, cioè di muschio. I ragazzotti si divertono a compiere sbruffonate alla Amici miei(nasce così il termine “teppista”) e poi affittano Villa Simonetta per le loro feste, cene e danze che regolarmente degenerano in orge (da cui il soprannome di Villa dei balabiott, “quelli che ballano nudi”). Nel 1821 la polizia asburgica li arresta tutti dopo la loro impresa più gaglioffa: ingaggiano nani e gobbi della città promettendo una notte di fuoco con delle prostitute, ma poi li chiudono nel salone di Villa Simonetta dove hanno convocato le più belle e nubili nobili milanesi. Una perfida bravata di cui in città si parlerà per decenni e che agli aristocratici capi della Compagnia costa l’arruolamento forzato nell’esercito di Vienna col grado di soldato semplice. Nel 1943 le bombe alleate distruggeranno la facciata della villa (poi restaurata) e con essa – pare – anche la potenza dell’eco.
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A me pare che Giannella Channel abbia scopiazzato da mio sito http://www.chieracostui.com
(provate a sfogliare le mie pagine, guardate foto, trascrizioni e note informative… Sì, qualcosa ha aggiunto -il web offre di tutto- ma l’idea, la traccia portante e il materiale mi pare che l’abbia preso da me)