Spiegare il fallimento dell’integrazione all’Espresso

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Milano 11 Giugno – Questa è la storia di Tarik, il più giovane Jihadista dell’Isis. Ma è anche la storia di un settimanale, l’Espresso, che ne ha raccontato le gesta, con un aplomb Inglese sconosciuto di norma da quelle parti. E, più in grande, è la storia di come una certa parte di Sinistra non riesca a fare la pace con la realtà. La pagina in cui se ne parla è questa: http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/06/08/news/storia-di-tarik-chierichetto-e-jihadista-morto-per-il-califfato-1.270396?ref=huffpo. Ve la riassumo. Ci sono due minori che vengono accolti in Italia. Sono due minori non accompagnati che vengono sfamati, vestiti ed istruiti. Uno, Tarik, è un bravo ragazzo. Fa il chierichetto. Studia, si diploma, si guadagna da vivere onestamente. L’altro è Monsef. Monsef beve, fuma hashish e delinque. Viene arrestato. Da là, scrive l’Espresso, Monsef, esce “trasformato”. Rifiuta “l’Islam dei padri” ed abbraccia il Daesh, ovvero l’Isis. Monsef raggiunge Tarik.

Monsef
Monsef

Qui parte una profonda analisi psico-socio-supercazzola in cui si cerca di spiegare perché il buon Tarik, chierichetto, decida di seguire la bandiera nera del Califfo a combattere in Siria ed Iraq. Alla fine Tarik muore. Diventa un martire Islamico. E di tutto quanto abbiamo detto sopra resta solo il malinconico ricordo. Fin qui la cronaca. E l’articolo dell’Espresso, scritto con uno stile tipo Mattinale dei Carabinieri, con spunti notarili e note da storici di provincia. Non un commento. Non un’analisi che superi la valle di lacrime alla Va dove ti porta il cuore. D’altronde, va lodata l’onestà intellettuale. Il giornalista, con ogni probabilità, non aveva alcun riferimento concettuale per spiegare quello che è successo.

Cosa spinge un ragazzo qualsiasi a prendere le armi ed ad andare a combattere una guerra civile in Siria? Dio. Fine. Non è difficile. La sete di Dio spinge da millenni gli uomini ad infrangere le barriere del possibile. Il Dio del Daesh, che non chiameremo Allah in ossequio al politicamente corretto e religiosamente ipocrita concetto che l’islam possa unicamente essere una religione di pace. La sete di Dio, quando incontra il Dio del Daesh, fa bere sabbia. Non ristora. Non soddisfa. Spinge a bere sempre di più. È acqua salmastra, che avvelena e corrompe. Ma è pur sempre acqua. E Tarik aveva sete. Ne aveva anche Mossef. E noi, avendo l’acqua che toglie per sempre la sete, gliela abbiamo negata. Tarik voleva bere e gli abbiamo fornito la versione epurata di ogni asprezza, di ogni contenuto e di ogni sostanza. E Tarik ha continuato ad avere sete, finché non ha deciso di bere sabbia. La sabbia l’ha avvelenato. Ed oggi Tarik è morto. Succede, quando si beve sabbia e succede quando ti negano l’acqua per paura di offenderti. Per paura dell’acqua. Per paura dell’offerta. Per vergogna per se stessi e per le proprie radici. Succede. Tarik era un bravo ragazzo. Secondo me lo era anche quando impugnava il mitra, era un bravo ragazzo che compiva atti disumani. Succede, quando si beve la sabbia. Ma non sappiamo nemmeno condannare il Dio del Daesh. È più forte di noi, ci viene da non offendere i suoi seguaci. Non lo denunciamo. Denunciamo gli uomini, ma non chi li fa agire in maniera disumana. La paura attanaglia i nostri cuori. E gli uomini in nero rapiscono migliaia di Tarik e gli fanno bere la sabbia.

Ma più in generale abbiamo paura di dire che questa accoglienza non sta integrando nessuno. Li vestiamo da chierichetti. Ma non piantiamo nulla nel loro cuore. E loro si alzano una mattina, tornano indietro “rinnegano il Dio dei Padri” (no, questa frase non ha alcun senso, ma non possiamo chiamarlo Allah, offenderemmo qualcuno) e passano al Dio del Daesh. Il nostro Dio, quello che un Mossef lo aveva già accolto e ne aveva fatto un Sant’Agostino, o un San Francesco, non ha lasciato alcuna orma sui loro cuori. Non c’è alcuna fonte per dissetarli. Abbiamo deciso di non scavare. Così sono tornati al Dio dei loro Nonni. Ci aveva avvisati, un grande del Novecento, dicendoci che i figli guardano ai nonni, più che ai padri. Questa integrazione fallisce ogniqualvolta questo accade. Cioè molto spesso, con risultati per fortuna non sempre così tragici. Però qualche dubbio sul modello generale dovrebbe venirci. A noi. Non certo ai giornalisti de l’Espresso. Loro sono semplicemente esecutori, notai della realtà. Che non vedono e quando la vedono non la capiscono. Deve essere un bel modo di vivere il loro. Peccato non esserci portati, non trovate?

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