Milano 17 Agosto – Meno di un contratto di lavoro su dieci stipulato nel 2015 ha creato occupazione che non c’era, recuperando dall’area della disoccupazione chi fino a quel momento era stato senza lavoro. Solo il 9,5% dei 2.530.695 contratti a tempo indeterminato registrati l’anno passato ha portato nuova occupazione. Il dato clamoroso, che contraddice molte analisi fin qui fatte sugli effetti del job act, emerge dalla prima ricerca analitica compiuta su dati ufficiali Inps- ministero del Lavoro dall’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro.
Il rapporto di “monitoraggio sulla nuova occupazione generata dalle disposizioni normative contenute nel Job Act” realizzato dall’osservatorio statistico dell’ordine professionale guidato da Marina Calderoni, segnala che il vero balzo registrato nel 2015 è stato quello delle trasformazioni di contratti già esistenti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, passati dai 331.396 del 2014 a 574.646 del 2015 (+73,4%). Questo effetto è senza dubbio dovuto al job act, che concedeva ai datori di lavoro la decontribuzione per 3 anni sui contratti a tempo indeterminato, senza vincolarli alla nuova occupazione. Così nessuno si è fatto scappare la magnifica occasione di trasformare un contratto già esistente in uno assai meno costoso, con effetti però nulli sul mercato della disoccupazione, perché i beneficiari risultavano tutti già occupati. Vero che invece del precariato ora i lavoratori hanno in mano un contratto a tempo indeterminato, ma alla fine del triennio sempre grazie alle norme del job act quei contratti potranno agevolmente essere interrotti, e quindi indeterminati sono al momento solo sulla carta.
I consulenti del lavoro ricostruendo grazie alle banche dati Inps la storia precedente di tutti i 2,5 milioni di contratti di lavoro formalizzati nel 2015 hanno scoperto che solo 240.137 contratti, pari al 9,5% del totale, hanno riguardato lavoratori in precedenza disoccupati o inoccupati (senza lavoro o al loro primo lavoro indipendentemente dalla loro iscrizione nelle liste di disoccupazione ufficiale). Il 58,9% di quei contratti, e cioé 1.489.850, ha riguardato lavoratori che avevano già un lavoro o come dipendenti anche a tempo indeterminato (hanno cambiato solo posto di lavoro) o come collaboratori fissi. Altri 226.061 (8,9%) contrattualizzati lavoravano già come professionisti o lavoratori autonomi e hanno avuto la possibilità di trasformare quel rapporto in contratto a tempo indeterminato da lavoratore dipendente. I restanti 574.646 contratti (22,7%) sono invece le già citate trasformazioni da tempo indeterminato a tempo determinato.
Che cosa raccontano allora le analisi dei consulenti del lavoro? Che innanzitutto l’effetto del job act è assai inferiore a quello delle prime analisi ufficiali, che ipotizzavano una nuova occupazione reale intorno al 20% dei contratti, mentre il dato ufficiale è addirittura inferiore alla metà (9,5%). E pur tenendo presente che 240.137 nuovi occupati non siano un dato da buttare via, per valutare il vero effetto bisogna tenere conto anche della congiuntura economica generale: dopo anni di recessione, in Europa è iniziata la crescita proprio nel 2015, e la crescita non sé porta naturale occupazione e conseguente riduzione dell’area della disoccupazione. Tenendo presente questo fattore, che cosa ha davvero prodotto il Job act in Italia? Qui la doccia gelata è addirittura superiore: al netto della congiuntura, l’effetto del job act è addirittura negativo. Vediamo perché.
Gli ultimi dati sull’occupazione forniti il 2 agosto scorso da Eurostat sono relativi al mese di giugno 2016. L’Italia ha un tasso di disoccupazione dell’11,6 per cento, e cioè un punto e mezzo superiore alla media dell’area dell’euro (10,1%) e tre punti superiore alla media dell’Europa a 28, che comprende anche i paesi che hanno conservato la loro moneta (8,6%). Nel gennaio 2014, l’ultimo mese prima dell’inizio del governo di Matteo Renzi, la disoccupazione italiana era al 12,9%, superiore a quella attuale. Ma quella dell’area dell’euro era al 12%, cioè solo 0,9 punti inferiore. E quella media dei 28 paesi dell’Unione europea era del 10,8%, cioè migliore di 2,1 punti rispetto al dato italiano. Quindi fra il gennaio 2014 e il giugno 2016 la forbice fra Italia e area dell’euro sulla disoccupazione si è allargata di 0,6 punti percentuali e quella fra Italia ed Europa a 28 si è allargata di 0,9 punti percentuali.
Cosa significano queste cifre? Molte cose. La prima evidenza è che soffrono meno per problemi di disoccupazione i paesi che hanno conservato la loro moneta, tanto è che sia nel 2014 che nel 2016 c’è sensibilmente meno occupazione nell’Europa a 28 rispetto all’area dell’euro. Ma per quel che riguarda l’Italia c’è una verità ancora più amara: il miglioramento dei dati dell’occupazione non è dovuto per nulla alle politiche del governo nazionale, anzi. L’Italia in questi due anni e mezzo non è riuscita a stare dietro nemmeno al ciclo economico generale, che era di ripresa, e non ce l’ha fatta a mantenere nemmeno il miglioramento medio degli altri paesi, che si prenda a riferimento l’area dell’euro o (peggio) che si prenda a riferimento l’Europa a 28. Questo significa che le scelte in materia occupazionale del governo in carica- essenzialmente centrate sul job act- non solo non aiutato il mercato del lavoro, ma sono state di intralcio rispetto al vento di ripresa che spirava in tutto il vecchio Continente, frenandolo con grande evidenza.
Franco Bechis (Libero)
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