Milano 20 Ottobre – Si vede troppo, che gli piacerebbe essere Obama. Qualcuno che gli sta vicino dovrebbe contenerlo, limitarlo, ricondurlo a un minimo orrore di sé. È proprio quando perde ogni freno inibitorio e simbolico, che dà il peggio di sé, Matteo Renzi, è quando realizza che il boy scout di Rignano sull’Arno viene accolto con tutti gli onori alla Casa Bianca, che l’orgoglio fiorentino precipita nella parodia. Quando la parodia è quella di un altro, e quell’altro è il presidente degli Stati Uniti, qualcuno di irraggiungibile per definizione, il cortocircuito vira seduta stante nel grottesco.
Ed eccolo lì, Renzi Matteo, presidente del Consiglio via accoltellamento di Letta e cooptazione di Verdini, che si specchia nel comandante in capo della più grande democrazia del mondo, pur largamente inadeguato e fallimentare nel suo bilancio (ma quella è tragedia planetaria, non commedia popolare), e si lascia andare. «Grazie per questa grande accoglienza. Il presidente Obama ha organizzato tutto, anche il sole…», e l’iperbole sembra sottile solo lui, allo spettatore pare un’eco di Alberto Sordi che vuò fa l’americano. «L’Italia ama la storia, e perché è maestra di vita. E credo che la storia sarà gentile con lei. Perché il suo Paese ha cominciato a crescere nonostante la crisi. Lei è differente, presidente. Noi siamo differenti». Già la cronaca non è gentile con Obama, il presidente che ha disimpegnato l’America dal mondo incendiando il Medio Oriente e concedendo spazio a un bullo dai piedi d’argilla come Putin (già l’anno prossimo l’attuale spesa militare russa rischia di far collassare l’economia balbettante del Paese, checché blaterino i numerosi e trasversali corifei italici dello Zar), il presidente che è riuscito ad apparire più indecisionista e meno americano di Jimmy Carter, figuriamoci la storia. Ma al Nostro non interessa, quello che conta è il sillogismo, l’improbabile rispecchiamento degli uomini e delle leadership (per quanto detestabile, Obama ha indubbia aurea ed empatia da leader iperliberal d’Oltreoceano). Tu sei differente. Da cosa? Dalla storia migliore e radicata nelle viscere del tuo Paese senz’altro, non a caso quelle si stanno rivoltando dando consenso a un outsider enigmatico del conservatorismo come Donald Trump. Noi siamo differenti. Da cosa? Dall’abc della società americana senz’altro, che nonostante otto interminabili anni di obamismo europeizzante, tutti retorica dei diritti moltiplicati e del Welfare allargato, rimane un Paese dove apri un’impresa con un clic, dove la pressione fiscale è al 25%, dove l’ascensore sociale funziona nei due sensi, che poi è solo uno, si chiama merito e talento individuale, dove esistono il Secondo Emendamento e l’autogoverno dei territori. Un Paese che ha “ricominciato a crescere”, e questo è indubitabile, con ennesimo gran scorno dei profeti ciclicamente ritornanti del declino americano (il primo fu nientemeno che Eugenio Scalfari, l’uomo che in vita sua le ha sbagliate tutte, che nel 1959 “profetizzò” l’imminente sorpasso dell’Urss, e ancora oggi il suo giornale insiste su un’inesistente sorpasso cinese, è cambiata solo la patria di riferimento dell’antiamericanismo socialcomunista). Ma non grazie all’interventismo obamiano, inutile quando non dannoso in un Paese abituato a risollevarsi sempre sulle gambe dei suoi individui, delle sue famiglie e delle sue aziende, bensì nonostante. C’entra nulla la lotta all’ “austerità”, l’improbabile minimo comun denominatore che Renzi cerca di evocare in questa presunta corrispondenza d’amorosi sensi con Barack&Michelle. Il ragazzo è premier di un Paese che libera le imprese dagli appetiti del socio occulto due mesi dopo gli States nei casi più ottimistici (è il famigerato Tax Freedom Day, che per certi artigiani e piccoli imprenditori nostrani cade addirittura ad agosto inoltrato, mentre lì si celebra ad aprile) e che ospita una piccola regione, la Calabria, che occupa tre volte le guardie forestali del Canada, la nazione delle foreste par excellence. Non possiede nemmeno la nozione, di “austerità”, lo statista di Pontassieve, e per quanto si agiti per farsi benedire come interlocutore da uno che tra poche settimane farà il conferenziere di lusso, e per nostra fortuna non avrà più alcun impatto decisionale nel mondo, non può essere un contrappeso ad alcunché, figuriamoci ad un’Europa a trazione tedesca, come sa benissimo e per primo Barack Obama. Che infatti indugia sulle analogie gossippare, extrapolitiche, ci rende edotti che anche a Matteo “piace usare Twitter”, come fosse una qualità di primaria importanza. Certo, si può fare, #lavoltabuona, in questo i due sono davvero uguali, nella sproporzione immane tra narrazione robustissima e governo flaccido. Ma il secondo, Renzi, è la parodia del primo, è un retore dem senza la grande retorica, un venditore politically correct senza la bella confezione, un Obama senza gli Stati Uniti, ed oggi era troppo palese.
Giovanni Sallusti (L’Intraprendente)
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