Giannino: “Sul commercio mondiale l’Italia sta facendo autogol”

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Milano 17 Novembre – Secondo coloro che lo descrivono come un novello Satana,  Trump avvierà disastrose guerre commerciali globali. In effetti, più volte ha ripetuto i campagne elettorale di essere pronto anche a maxi-dazi ai paesi che più pesano nello sbilancio commerciale degli USA, di voler rivedere energicamente con ciascuno di essi gli accordi commerciali esistenti. Stiamo parlando innanzitutto della Cina, Giappone, Messico, Corea del Sud, Taiwan. Ma ovviamente tutti hanno inteso che siano Messico e Cina, gli obiettivi fondamentali. Una svolta radicale di queste proporzioni avrebbe effetti enormi: abbatterebbe ulteriormente il commercio mondiale che da anni cresce ormai meno del PIL globale, ribaltando il trend che fino a 2 anni fa aveva rappresentato la locomotiva della crescita planetaria. Vedremo cosa Trump farà davvero. Se per il Messico ha confermato la volontà di terminare la recinzione al confine che già è lunga decine e decine di chilometri, e di voler rispedire a casa chi ha pendenze penali, per la Cina la cosa da subito però sta assumendo termini molto diversi. Non a caso ieri la tv di Stato cinese ha dato grande rilievo alla prima telefonata intercorsa tra Trump e il presidente Xi Jinping, definita “molto costruttiva” e con dichiarata intenzione di Trump a realizzare con la Cina “una delle più forti partnership della sua presidenza”.
Una contraddizione manifesta di Trump, dunque? No. Al contrario, le parole di Trump al leader cinese aiutano a capire quale sia la sua vera strategia nel commercio mondiale. Direi che è il caso di aprire gli occhi, e capire. Trump non crede alla rete dei grandi trattati multilaterali che associano grandi aree mondiali, su cui si è affaticato Obama con Il Trattato Transpacifico ormai approvato e a cui manca solo la ratifica finale, e il Trattato Transatlantico con la Ue, che invece a questo punto finisce su un binario morto. Trump vuole ridefinire i rapporti commerciali con i paesi leder del commercio mondiale su base bilaterale, da potenza a potenza. Ma in questo realizza esattamente le insperate attese della Cina e della Russia di Putin, che la pensano esattamente allo stesso modo.
La Trans Pacific Partnership, il TPP fratello asiatico del TTIP con l’Europa, esclude Cina e India. E’ sempre stato considerato da Pechino una morsa commerciale che Washington stringeva coi suoi alleati contro la Cina. L’approccio di Trump potrebbe sposare dunque in pieno invece lo schema bilaterale che Pechino sta promuovendo in Asia coi suoi amici e alleati a cominciare dall’india, che si riconoscono nella Regional Comprehensive Economic Partnership. Uno schema che nel valutare i possibili dumping commerciali si libera delle tecniche di valutazione sul ruolo eccessivo dello Stato, o degli insufficienti diritti dei lavoratori propri del modello “occidentalista” del WTO. “I nostri grandi paesi possono ora collaborare finalmente liberi da vincoli ideologici”, dice Pechino a Trump. Ed è proprio ciò che Trump vuole.
Mettiamocelo bene in testa. A maggior ragione ora che la FED forse con più energia accelererà l’aumento dei tassi, cioè l’innalzamento del valore del dollaro e l’abbassamento invece del valore dei titoli pubblici USA al crescere del loro rendimento: nessun presidente americano può dimenticare che la Cina ancora a giugno 2016 deteneva quasi 1250 miliardi di dollari di debito pubblico statunitense, oltre, si stima, a più di 1000 miliardi di debito corporate. Nell’ordinamento federale americano il presidente può sì decidere secondo il Trade Act del 1974 quote e dazi penalizzanti verso paesi accusati di scorrettezza commerciale, ma il Senato ha poi potere incontestabile di ultima parola sull’argomento. E qualcuno ha già spiegato a Trump che l’accusa da lui in un paio di occasioni rivolta a Pechino di manipolare il cambio dello yuan in realtà è arma spuntata, perché pur di ottenere dal Fondo Monetario la qualifica di moneta di riserva internazionale i comunisti cinesi hanno in realtà rivalutato lo yuan del 16% tra giugno 2015 e 2016, cedendo sul mercato oltre 500 miliardi di riserve in dollari per sostenerne il corso, prima di tornare da allora a leggere svalutazioni.
Tutto bene, dunque? Neanche per idea, dal punto di vista italiano ed europeo. In un mondo che riaccentra tra potenze gli scambi commerciali, l’Europa corre il fortissimo rischio di non capire, di restare debole e divisa. Siamo l’unica macroarea mondiale che si è impiccata alla data del prossimo 16 dicembre per riconoscere lo status di economia di mercato alla Cina. Juncker ha ripetuto ancora la settimana scorsa che è un riconoscimento automatico dovuto ai cinesi, secondo l’articolo 15 del trattato OMC dopo 15 anni di adesione. Ma nessun grande paese al mondo, Usa, Brasile, Messico, Giappone , riconosce l’automaticità di questa concessione, che significa rinunciare a valutare settore per settore la possibilità di dumping non usando prezzi e costi cinesi ma quelli di un paese benchmark terzo, e abdicare al fatto che sia la Cina a dover dimostrare di non usare prassi scorrette, mentre una volta concessale il nuovo status spetterebbe a noi provare il contrario. Di fatto nella Ue la Germania è favorevole a definire la Cina economia di mercato, perché in piccolo pensa esattamente anch’essa di avere forza sufficiente per un rapporto bilaterale con Pechino che le consenta comunque di tutelare al meglio il suo export. Di qui la recente proposta di regolamento della Commissione UE, il 9 novembre scorso, che in pratica è quasi una resa alle aspettative cinesi. L’Italia ha un interesse diverso, dovrebbe impegnarsi perché quella risoluzione sia modificata. Lo scrivo da mercatista e da assoluto nemico dei dazi. Nessuna concessione della clausola di economia di mercato a una Cina ancora iper statalista nelle imprese e nella regia dei settori di imprese, nel listino quotato, e nel credito, se non si definisce prima un criterio oggettivo condiviso per calcolare il dumping, e misure di tutela concrodate – i cosiddetti TDIs- se il dumping restasse. Non è un caso che dei 52 dazi UE ancora esistenti su settori di import dalla Cina, i 17 ultimi abbiano quasi tutti riguardato l’acciaio, e che ancora ieri se ne sia aggiunto un altro, sui tubi non saldati in ferro e acciaio. O l’Italia e l’Europa capiscono che nel nuovo mondo commerciale Trump, Putin e Xi Jinping vanno a braccetto e i cocci sono nostri, oppure sarà solo peggio per noi. Prendersela con Trump-Satana è solo un diversivo. Mentre minacciare il veto al bilancio UE, come sta facendo il governo Renzi in queste ore, è un autogol.

Oscar Giannino (Leoni blog)

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