Sant’Ambrogio, il discorso del Cardinale Scola

Milano

Milano 7 Dicembre – Per uscire dal vicolo cieco in cui l’Europa sembra essere caduta, Milano e la Lombardia comprese, diviene necessario domandarsi se essa sia in grado di incarnare ancora un’idea politica forte, quale è stata quella che negli anni Cinquanta è riuscita ad aggregare i primi Stati membri. È necessaria una nuova visione dell’Europa che, da una parte, valorizzi quella molteplicità culturale che da sempre la caratterizza e, dall’altra, permetta agli stessi Stati di ritrovare la necessaria unità per rispondere alle sfide dei tempi, prime fra tutte l’immigrazione e la sicurezza. Ritorna così di un’attualità quasi imbarazzante il monito lanciato poco prima di morire da Jean Monnet: «Se dovessi rifare tutto quanto, comincerei dalla cultura». Da sempre l’identità europea ha presentato tratti paradossali e quelle precedentemente descritte non sono certo le prime emergenze con cui si è trovata a fare i conti. Se, da una parte, la storia del nostro continente fa emergere il dato incontrovertibile di una comune appartenenza, dall’altra è altrettanto evidente come il patrimonio condiviso da almeno 1.700 anni si sia sempre declinato in una tale pluralità di forme, di culture, di lingue da rendere assai difficile, in un certo senso, il riferimento a una qualche unità originaria.

A ogni modo, occorre riconoscere che, stante la complessità dei processi in atto, oggi nessuno Stato nazionale è in grado di affrontarli da solo: l’Europa non è un’opzione, ma una vera e propria necessità. D’altra parte sono convinto che non si possa rinunciare a un ideale comune che, in qualche modo, funga da principio unificatore e riesca a far evolvere l’incipiente declino in un benefico travaglio.

La strada percorsa all’inizio storico delle attuali istituzioni europee (con la costituzione della Ceca) individua un metodo con cui, anche nel radicalmente mutato scenario odierno, è possibile perseguire l’unità. Si tratta, inoltre, di un metodo congeniale alla storia e al temperamento dinamico e operoso dei milanesi.

Siamo chiamati a partire dalla realtà, nelle sue urgenze concrete, per lasciar emergere l’ideale. L’ideale, non l’utopia, vale a dire un senso (significato e direzione) per un cammino comune europeo. Come allora sembrava esserci sproporzione tra gli obiettivi fissati (produzione comune del carbone e dell’acciaio) e gli ideali di pace e di prosperità dell’intero continente (il carbone e l’acciaio erano la materia prima dell’industria bellica), così anche oggi servono nello stesso tempo grande realismo e grandi ideali.

In quest’ottica non basta, anche se è necessario, guardare alle radici dell’Europa che conosciamo bene. Al di là dei tanti innegabili apporti che nel corso dei secoli hanno contribuito a modellarne il volto – penso a Gerusalemme, Atene e Roma, fino alle istanze illuministiche di libertà e uguaglianza e a quelle moderne circa il peso del soggetto – mi sembra che elementi decisivi di queste radici possano essere oggettivamente reperiti nel nucleo del cristianesimo inteso secondo il criterio della ‘secondarietà’ individuato da Rémi Brague. Senza tener conto delle ‘implicazioni’ antropologiche, sociali e culturali contenute nella rivelazione trinitaria – dalla singolare visione della dignità della persona e dell’insuperabilità della differenza sessuale, alla concezione della libertà e del suo rapporto con la verità, fino alla salutare distinzione tra società civile e dimensione religiosa e al riconoscimento del valore della sussidiarietà e della solidarietà – è difficile dar conto di cosa intendiamo con la parola Europa. In questo quadro invece tutte le differenze etniche, nazionali e linguistiche finiscono per consolidare, non per corrodere, un patrimonio comune nel senso etimologico del termine.

Un sano rapporto tra reale e ideale come metodo per edificare una comune casa europea mostra che in Europa siamo attrezzati per affrontare l’inevitabile tensione tra identità e differenza e tra unità e pluralità che, a ben vedere, anche se con caratteri diversi, ha connotato ogni epoca. E lo siamo proprio grazie alla radice cristiana delle nostre culture. Infatti il principio della differenza nell’unità vive, per eccellenza, nel mistero della Trinità. Tale principio trapassa nella storia in forza dell’incarnazione di Gesù Cristo per diventare principio di comprensione e valorizzazione di ogni differenza, da quelle costitutive di anima- corpo, uomo-donna, individuo-società, persona-comunità, a tutte le diversità etniche, culturali e religiose. Questo non significa che l’Europa possa, in modo quasi indolore, trovare facili accomodamenti tra i diversi soggetti in campo. Il ‘meticciato di civiltà’ è un processo e non un programma prescrittivo; ma gli europei, oserei dire soprattutto i cristiani, hanno tutti gli strumenti culturali per raccogliere la sfida della pluralità. Si tratta di ripensare gli assiomi su cui poggiano le nostre democrazie procedurali e il principio di laicità sul quale intendono reggersi. In una società plurale, per sua natura tendenzialmente conflittuale, la laicità è tale solo se crea le condizioni per garantire la narrazione di tutti i soggetti personali e sociali che la abitano, in vista del reciproco riconoscimento. Solo così è possibile una convivenza tendenzialmente armonica che generi vita buona. L’espressione «Europa famiglia di popoli», ripetuta da papa Francesco nei discorsi rivolti all’Europa, dice bene il compito storico che la attende: non un superstato né una raffinata tecnocrazia, ma una convivenza delle diversità, capace di farle collaborare e di integrarle nell’orizzonte di senso proprio di un umanesimo personalista.

Per raggiungere tale complessa armonia è necessario il riconoscimento pratico dei beni da condividere. Come già diceva Maritain nel 1947 all’Unesco, non si tratta di elaborare a tavolino un accordo tra diverse mondovisioni, è necessario dare valore politico, attraverso precise procedure, al bene sociale pratico primario del vivere insieme. Questo dato sociale deve essere elevato al rango di bene politico da tutti e promosso dalle istituzioni. Per essere fondato non richiede alcun accordo ideologico preventivo. All’interno di questo spazio, garantito a tutti, potrà esercitarsi il dinamismo del riconoscimento dialogico tra i soggetti sui singoli contenuti di valore, in un confronto, serrato e sempre aperto, tra mondovisioni diverse. Elaborando, in modo adeguato, questa comune decisione, il bene pratico politico dell’essere in società potrebbe costituire quell’universale politico che il processo di secolarizzazione nel corso della modernità ha fatto smarrire. (Avvenire)

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