Milano 10 Dicembre – Una Signora del balletto. Star sotto i riflettori per carisma innato, schiva nella vita di tutti i giorni, da vera milanese. Luciana Savignano è un’étoile double face, nel cui risvolto si è addensato un mondo antico di sentimenti genuini, come la terra d’origine della madre, la silvestre Ligonchio, nel parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano. Una carriera, la sua, che non ha ancora messo il punto di arresto, dopo gli splendori della Scala (di cui ha segnato l’epoca aurea delle sperimentazioni coreografiche), dopo i trionfi con il Ballet du XXe Siècle di Béjart a Bruxelles e molto altro. Venerdì nel Ridotto dei Palchi della Scala è stato presentato l’ultimo libro a lei dedicato «Luciana Savignano – L’eleganza interiore» di Emanuele Burrafato.
L’eleganza ha attraversato la sua vita. Sua madre le diceva, da ragazzina, «ti starebbe bene anche un sacco» ed è ancora vero, per quanto lei vesta in modo raffinato. In scena, la classe ha distinto anche i suoi ruoli più provocatori…
«Ho sempre dato importanza all’eleganza, nel modo di essere e di apparire. Si può fare tutto, ma con classe. Ho vissuto un’epoca in cui Milano sfornava maestri di eleganza, come Gianni Versace: era un timido che nascondeva una grande forza creativa e l’onestà che permette di toccare i vertici. Quando disegnò per me i primi costumi per “Joseph Legende” di Russillo alla Scala, mi vestì di blu, screziato di turchese, senza sapere che sono i miei colori preferiti».
Qual è la sua «geografia del cuore» a Milano?
«La mia vita artistica si è svolta in quel quadrilatero d’oro che dalla Scala va al Lirico — dove in una stagione mi alternai a Jorge Donn nel “Boléro” di Béjart —, fino al Castello Sforzesco e al Teatro Franco Parenti. Sopra a tutto c’è la Scala: la ricordo per la gente che l’ha animata. E in cima a “quella” Scala c’era Paolo Grassi, uomo di teatro con un intuito infallibile. Puntò su di me per il “Lago dei Cigni” e quando andai da Béjart mi telefonava paternamente».
Lei ha avuto una carriera internazionale e al tempo stesso «milanocentrica». Una scelta dettata dall’interiorità?
«Ho bisogno di calore umano, è ciò che mi tiene ancorata ai luoghi. La mia visione della danza parte dall’interno. Se devo eseguire movimenti che non trovano origine dentro di me, non posso farli. Oggi nella danza c’è molta esteriorità, troppa voglia di apparire».
Una visione particolare della città?
«Quella dai ballatoi della Scala affacciati all’interno palcoscenico, al quarto piano. Andavo a spiare le opere dall’alto in una prospettiva magica, che svelava i segreti del teatro. Ricordo un famoso “Sansone”: vedevo i ballerini dall’alto come se li dominassi».
Il passo a due più insolito? Il balletto che l’ha sorpresa?
«Non avrei mai pensato di poter interpretare “L’Angelo Azzurro” di Petit, mi sentivo agli antipodi di Marlene Dietrich. Fu mia madre a convincermi. La danza più sorprendente è stata sul muso di due delfini nelle acque di Cajo Largo, a Cuba, tre anni fa. Con gli animali ho sempre avuto un rapporto speciale».
Ha stretto un patto con il suo corpo?
«Quando compii cinquant’anni chiesi consiglio a Béjart se dovessi ritirarmi: “Adesso che hai finito con i fouettés, ricominci”, mi rispose. Per tenermi in forma non faccio nulla. Mai stata a dieta. Le donne, se vogliono, sanno rendersi amico il tempo».
Valeria Crippa (Corriere Milano)
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