Milano 13 Gennaio – Un segno veloce, al limite dell’isteria creativa, su un foglio di carta inserito in una tela, come se fosse un luogo di ritiro dorato. Ti allontani e la prima idea è quella di uno scarabocchio infantile che vive grazie alla supremazia dei colori, che sia tempera, olio o carboncino. Movimento. Gestualità. Questo era Martin Disler (1949-1996), pittore e scultore svizzero dallo spirito inquieto che vedeva nell’arte una “ribellione romantica”, come lui stesso confidò al critico Demetrio Paparoni in una memorabile conversazione risalente al 1994, pochi anni prima della sua morte, raccolta in un libercolo (‘Demetrio Paparoni, Martin Disler – Talking together’, Studio d’arte Cannaviello, 1994). Il suo animo versatile lo aveva portato a occuparsi anche di scultura e letteratura e, soprattutto, a rifuggire dalla televisione, paragonata a un “fiume puzzolente di parole inutili e di immagini falsificate”.
E ora, vent’anni dopo la sua scomparsa, lo Studio d’arte Cannaviello(Piazzetta Bossi 4) ha deciso di omaggiarlo con la mostra ‘Martin Disler – Opere su carta’, che si potrà ammirare fino al 18 febbraio. Una ventina di tele in tutto, realizzate a Milano tra gli anni ’80 e ’90, che rappresentano in qualche modo un unicum: niente titoli, solo introspezione, anche se a dominare sono temi complessi e scabrosi come il sesso, la morte, il mistero che delinea i tratti dela figura umana, reso ancor più maledettamente ingarbugliato da quei segni capricciosi e liberi. Un po’ come lui, in fondo. Formatosi da autodidatta, prima ancora di iniziare il proprio percorso con il disegno su carta e tela, Disler aveva infatti realizzato una serie dipinti murali per strada a Zurigo, dove già si intravedevano una mano impulsiva e un carattere fortemente provocatorio.
Enzo Cannaviello Disler lo conosceva bene. La sua galleria d’arte ha una storia che si avvicina al mezzo secolo. “Ricordo quando la inaugurai a Caserta, nel 1968 – racconta -. All’epoca ‘galleria d’arte’ era una brutta espressione, ma io ho proseguito per la mia strada”. Nel ’70 il trasferimento a Roma, poi a Milano, nel ’77, l’anno del movimento studentesco. Nel suo studio sono passati decine di artisti e oltre tremila opere, anche se per Disler Cannaviello sembra avere un debole. “Eravamo molto amici – ricorda -. Negli anni ’80 Martin viveva sui Navigli e io stesso ho assistito all’esecuzione di molti suoi dipinti. Mi incantava la sua rapidità di esecuzione. Pensi che quando realizzò il murales all’ospedale Pini di Milano sembrava un ballerino sul palco. Si teneva in forma perché riteneva che per realizzare le sue opere la cosa più importante fosse il gesto istintivo e rapido”.
Era stato proprio Cannaviello ad accorgersi di Disler a Zurigo e del suo “dipingere male”, che in realtà sottintendeva la voglia di affrancarsi da ogni accademismo per ritrovare la propria forma di bellezza. Che sperimentò viaggiando e vivendo in grandi metropoli come Parigi, Milano e New York, prima di ritornare nella sua Svizzera, a Les Planchettes, per vivere gli ultimi anni con il suo blocco di appunti e i colori a olio, che avevano preso il posto di quelli ad acqua regalando alle sue tele maggiore consistenza materica. Con un pensiero rivolto a Goya e l’altro a Bacon, “per i quali la figura umana e la sua ferita erano al centro della rappresentazione”. Lontano dalla civiltà, nell’ultimo fermento creativo.
Giuseppe Di Matteo (Il Giorno)
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