Milano 21 Gennaio – Ieri si è insediato il 45simo Presidente degli Stati Uniti d’America. Ed ha avuto fine il magico interregno in cui Obama poteva continuare, in spregio ad ogni tradizione e buon senso, a fare come gli pareva. Adesso inizia un’era nuova. Il cui primo atto è stato cancellare l’Obamacare, iniziando a definanziarlo. Ma il focus di questo articolo sarà il discorso di Trump. Ed il confronto, impietoso, con quello di Obama nel 2009. Prima di tutto e soprattutto una cosa colpisce: il linguaggio. Severgnini, capofila di quelli che tutto avevano capito e così bene avevano capito che alla fine tutto hanno sbagliato, ha detto che aveva la retorica di un bambino di 11 anni. È vero. Non c’è un filo di retorica. È questo che spaventa. Trump parla sempre e solo di cose concrete. Obama parlava di tempeste che si preparavano. Parlava di dogmi incrinati dal tempo. Del valore di essere nazione. Trump no. Trump parla di lavoro. Parla del valore di comprare Americano. Questo è un contrasto netto perché, di fondo, fa il contrario di quello che si fa in queste occasioni. Guardate il parterre. Ricordate chi ha rifiutato di cantare per lui. Ascoltate Zucconi, la Botteri, Severgnini. Trump ha detto, in sostanza: per otto, interminabili anni, ma, in senso più ampio, per trenta, lunghissimi, anni, questo discorso è stato per voi. C’è stato un consenso, una regola non scritta, tra Democratici e Repubblicani, sul fatto che questo era il vostro palco. È stato il lungo oblio della tradizione Reaganiana. Reagan parlava di libertà ad una nazione che per la libertà era disposta a combattere e morire. Dopo di lui si è parlato di valori sempre più alti ed astratti. Con Bush Junior, dopo l’11 Settembre, attorno alla bandiera il popolo si è nuovamente stretto. Ma da là in poi c’è stato il vuoto. Ecco, ieri sera, attorno al Presidente c’era il popolo. Questa è la novità.
Ogni paragrafo, quasi, del discorso inizia con We, noi. We è una parola importante nella tradizione Americana. La prima parola della storia Americana, nella forma della dichiarazione d’Indipendenza è We. We, the People. Noi, il Popolo. Si dice che George Washington, se lo avesse voluto, sarebbe potuto essere il primo Re d’America. Invece preferì attenersi al We. Lo stesso Trump. Hanno detto che è stato un discorso narcisistico. Lo hanno detto gli stessi che non avrebbero scommesso un penny bucato sul suo successo. Non è un caso. Loro non hanno ascoltato. E se lo hanno fatto, ancora una volta non hanno capito. We è una dichiarazione di guerra. È il ritorno all’eccezionalismo Americano che, al contrario di quanto pensano in molti, non era l’I, l’Io Obamiano. No, è il We. L’accettazione di sacrificare parte, e solo parte, della propria individualità per qualcosa di più alto. Che non c’è alcun bisogno di definire. Perché viene sentito e provato. Ed il primo sacrifico, cioè comprate Americano, Trump l’ha chiesto subito. Obama voleva la società aperta. Non ha funzionato. Non poteva funzionare. E non per motivi economici. Ma perché postulava, senza dirlo immediatamente, che per riuscirsi la spina dorsale Americana, la comunità bianca e lavoratrice, dovesse accettare di raggomitolarsi in un angolo e morire. Ma, per quanto si voglia ricamare, We, the People, non era il melting pot. Non era la società multietnica in cui il tutti dentro era una la religione dominante. We, the People era un gruppo di bianchi disposti ad accogliere tutti quelli che la pensavano come loro sul mondo. Trump è tornato alle radici. Perché le radici profonde non gelano.
Laureato in legge col massimo dei voti, ha iniziato due anni fa la carriera di startupper, con la casa editrice digitale Leo Libri. Attualmente è Presidente di Leotech srls, che ha contribuito a fondare. Si occupa di internazionalizzazione di imprese, marketing e comunicazione,