Milano 28 Febbraio – Arriva la “norma antiscorrerie”, l’intenzione del governo è stata annunciata dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda. E’ presentata come una misura di maggior trasparenza nell’assunzione progressiva di quote di società quotate, ma detto in parole semplici la volontà è di mettere sabbia nell’ingranaggio delle scalate ostili alle società quotate. E sarà inserita nel disegno di legge sulla concorrenza, che giace da oltre due anni in parlamento ormai disossato proprio da tutte le misure inizialmente più efficaci per aprire il mercato. Il paradosso è che ora verrà invece approvata, ma per introdurre nel nostro ordinamento misure volte a rendere meno contendibile il controllo delle imprese.
Naturalmente, governo e partiti sostengono che misure simili non sono affatto dettate dalla necessità di alzare muri contro il finanziere bretone Bolloré e la sua Vivendi in Mediaset, della quale è giunto la scorsa estate a possedere il 28,8% che con i diritti di voto diventerà tra poco il 29,9%, cioè a un soffio dalla soglia dell’OPA obbligatoria, facendo a tutti immaginare di volerla associare a un progetto comune con Telecom Italia, di cui è primo socio con oltre il 24% del capitale. Fatto sta che l’annuncio viene all’indomani della notizia di Bolloré indagato per aggiotaggio dalla Procura di Milano per il comportamento tenuto nella vicenda Premiumtv-Mediaset. E mentre si resta in attesa dell’indagine aperta dall’Agcom sull’eventualità che la posizione di eventuale controllo in Mediaset e Telecom Italia oltrepassi nel mercato delle comunicazioni la soglia della posizione dominante.
Vero è che, oltre a Mediaset e Telecom, la politica teme anche che magari dietro il successo clamoroso di Unicredit, che ha appena annunciato la chiusura a 13 miliardi del suo aumento di capitale (e per fortuna: Mustier va ringraziato, se avesse fallito un nuovo tsunami si sarebbe abbattuto su tutte le banche italiane), possano esservi ingressi sostanziosi di “pesanti” soggetti bancari e assicurativi europei. E la stessa cosa la politica teme in Generali, sulla quale proprio ieri Banca Intesa ha annunciato formalmente di rinunciare a ogni mira. A queste preoccupazioni sui pochi residui giganti finanziari italiani, e naturalmente sulle centinaia di miliardi di titoli pubblici che hanno in pancia, la politica aggiunge la necessità della “reciprocità” nei confronti della Francia. E’ in corso il braccio di ferro tra la nostra Fincantieri e il governo francese, che si è messo di mezzo contro l’intenzione italiana di rilevare il 66% dei cantieri di Saint Nazaire finora detenuto dai sudcoreani di STX. Perché mai allora l’Italia non dovrebbe adottare una norma antiscalata esattamente analoga a quella francese?
“Nel mondo la globalizzazione arretra e si torna al protezionismo, noi non siamo più fessi degli altri”, è diventato il motto del governo. Eppure, qualche dubbio dovrebbe venire. Sarà un caso ma non lo è: dopo la soglia unica al 30% disposta negli anni ’90 per l’Opa obbligatoria nelle quotate dal TUF a cui lavorò Mario Draghi, la prima sostanziale modifica è venuta tre anni fa, introducendo una soglia del 25% nelle grandi quotate se chi la raggiunge è primo socio della compagine, e con la libertà per le quotate inferiori ai 200 milioni di capitalizzazione di portare la soglia dal 25% al 40%, introducendola liberamente nel proprio statuto. Ma, guarda guarda, anche in quel caso la legge nacque per bloccare gli spagnoli di Telefonica in Telecom Italia, e oggi quella stessa soglia spiega perché Bolloré vi rimanga sotto di poco, sempre nella stessa Telecom Italia. Difficile credere a interventi di portata “generale”, se ogni volta si parla di tlc e tv.
Si dirà: ma mica possiamo farci comprare tutto a buon mercato dagli stranieri. Innanzitutto, anche se nessuno sembra farci caso, il numero di imprese estere partecipate e controllate da imprese italiane è costantemente cresciuto, anche negli annidi crisi 2008-2015: del 15,8% dice l’ICE. Le sole grandi imprese italiane controllano attività estere per oltre un milione di dipendenti, 246 mila lavoratori in imprese straniere rispondono al controllo di medie aziende italiane, e 146mila quelli dall’estero controllate da piccole imprese italiane. La globalizzazione ha funzionato a doppio senso. Mentre qui da noi sembriamo attenti solo alle acquisizioni estere nella nostra moda e finanza, le imprese tricolori hanno continuato a espandersi all’estero: nell’automotive, metallurgia, farmaceutica e alimentare.
Inoltre: ma poiché siamo un paese a corto di capitali e con banche stressate dal credito deteriorato e inefficienza gestionale, conviene davvero poi respingere i capitali stranieri? No, dovremmo fare l’esatto contrario. In che cosa consiste la “strategicità”, se di fatto Telecom Italia ha perso per malagestione il più delle sue presenze estere e ha margini bassissimi sul mercato domestico, mentre Mediaset nel mercato tv italiano non può crescere, e oltre la Spagna non ha abbordabili sviluppi internazionali possibili? In un mondo in cui l’integrazione tra produzioni d’intrattenimento e d’informazione e piattaforme multimediali è il drive della crescita?
Ecco, porsi queste domande significa guardare alle bandierine nazionali che esercitano il controllo con un’altra prospettiva. Se vogliamo che le imprese che restano in Italia crescano, la via dell’integrazione in grandi catene internazionali del valore e della finanza è uno sviluppo molto positivo: e lo è anche se cambia la proprietà, lo è in tutti i casi in cui chi controlla oggi le imprese italiane quell’integrazione non riesce a conseguirla.
Ma non è il ragionamento che va per la maggiore oggi. Nella politica e nel dibattito pubblico nostrano torna a suonare prepotente la sirena del nazionalismo, del protezionismo, dell’autarchia. Il disastro Alitalia sembra non insegnare niente a nessuno: quando invece di buttare pacchi di miliardi pubblici prima e privati con generoso aiuto pubblico nel post 2008, i fatti hanno mostrato anche ai ciechi che sarebbe stato mille volte meglio la fusione con gli olandesi di KLM, negli anni Novanta dello scorso secolo.
Ecco perché è molto probabile che finiremo per adottare la nuova disciplina “francese” delle OPA: con obblighi di comunicazione rafforzata per ogni soggetto cha superi la quota prima del 5%, poi del 10%, del 15% e infine del 20% del capitale in una quotata, tenuto a comunicare a ogni boa che intenzioni abbia, chi lo finanzia, perché lo stia facendo. Com’è ovvio, una norma simile renderà ancora più difficile che gli azionisti diffusi si vedano un giorno associati a godere del premio al controllo dell’azienda, visto che a questo serve l’OPA obbligatoria. Non è una norma dunque che nasce per favorire la contendibilità cioè la maggior efficienza dell’impresa, e non è nell’interesse dei piccoli soci. Serve solo a rendere più forti i soci di controllo attuali, e ad evitare che usino più capitale per continuare a esercitare il controllo e per rendere l’azienda più efficiente. Viva il nazionalismo, nuovo oppio dei popoli e della politica. Ma che sia un bene sol perché altri lo perseguono più di noi, è indimostrabile: la storia dice l’esatto contrario.
Oscar Giannino (Leoni blog)
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