Milano 10 Marzo – Articolo di Riccardo Paradisi tratto dal numero di Tempi in edicola
Doveva lasciare la politica Matteo Renzi in caso di sconfitta al referendum costituzionale: «Qui mi gioco l’osso del collo», aveva declamato in posa destinale, «non sono un politico vecchia maniera che resta attaccato alla poltrona». Bisogna saper perdere (Bollati Boringhieri, 162 pagine, 12 euro), il libro di Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra sulla congenita incapacità della politica italiana di prendere atto della sconfitta, si chiude con Renzi ancora presidente del Consiglio intento a bruciarsi ponti alle spalle alla vigilia della grande ordalia referendaria. «Annuncio non inedito quello di Renzi» notavano gli autori, annuncio sempre finora disatteso però in un paese dove chi perde non se ne va mai. E tuttavia «se la promessa dovesse trovare riscontro nella prassi – era l’auspicio di Battaglia e Volterra – rappresenterebbe una netta soluzione di continuità rispetto al passato».
Il nuovo blog di Matteo Renzi si chiama “Il futuro prima o poi torna”: è la piattaforma su cui l’ex premier sta rilanciando, dopo la sconfitta referendaria e le dimissioni da palazzo Chigi, la sua premiership. Del resto che fai: lasci orfano il 41 per cento di italiani che ha votato Sì il 4 dicembre? E così la marcia nel deserto di Renzi si riduce a un pit stop a Pontassieve: c’è una macchina congressuale da far partire, una rottamazione mutilata da vendicare. Il merito principale del libro di Volterra e Battaglia è proprio quello di raccontare settant’anni di storia italiana lungo il filo rosso di questa costante: l’incapacità di tramontare della nostra classe politica il cui unico vero tabù è la sconfitta. «È come se dal suo manuale di istruzioni avessero strappato via le pagine a lei dedicate». Persino il termine è impronunciabile per i protagonisti della scena pubblica che parlano di “leggera flessione”, “sostanziale tenuta”, “non vittoria”.
«Il popolo è con me»
La storia non è acqua. L’Italia, espressione geografica per lunghi secoli e terra di scorribande straniere prima d’essere nazione, è l’unico paese ad essere riuscito a convincersi di avere vinto la Seconda guerra mondiale dopo averla persa nel peggiore dei modi. Si deve a Salvatore Satta, un grande giurista cattolico e antifascista, l’analisi più lucida e spietata dell’anomalia italiana: «L’individuo che il 10 giugno 1940 aveva opposto se stesso alla guerra concludeva logicamente l’otto settembre il suo ciclo: da ladro. Come per salvarsi aveva voluto la sconfitta, così trovava nella sconfitta quel titolo per il saccheggio che di solito si trova nella vittoria». Da qui l’assenza di un serio esame di coscienza, l’abitudine all’alibi morale, il mettere sul conto degli altri le proprie responsabilità. Il trasformismo come istinto mimetico di sopravvivenza, il durare come unico imperativo categorico dell’agire politico.
Dopo cinque mesi l’esperienza di Francesco Parri al governo è già agli sgoccioli. Siamo nel novembre del 1945: il vecchio capo della Resistenza non ha più una maggioranza che lo sostiene. Ma lui non si rassegna: «Il popolo è con me», dice mentre allude a un presunto tentativo di golpe in corso di democristiani e liberali. Dovrà cedere, dopo aver paventato sollevazioni popolari in sua difesa, ma lo farà di malanimo. Il fantasma del colpo di mano si riaffaccia costantemente nei capitoli di questo libro così rivelatore dell’ombra italiana. Dalla sconfitta della monarchia nel referendum del ’46 alle elezioni del ’48, dalla caduta di Craxi a quella di Berlusconi nel 2011 ciò che sempre torna è l’assenza di legittimazione dell’avversario, al quale non si dà nemmeno lo statuto etico di nemico ma lo si riduce a traditore della patria, a nemico del popolo e però intanto cercando con lui un accordo. Tutto pur di non lasciare che vi siano vincitori e vinti.
Cameron e Zapatero
«La sconfitta è diventata l’anomalia che nascondeva alibi e scenari indicibili e inquietanti: il regime di Silvio Berlusconi, il partito delle procure, la dittatura delle sinistre, il colpo di Stato di Giorgio Napolitano e di Renzi, il totalitarismo di Beppe Grillo e via procedendo». La sconfitta è un’ingiustizia a cui si resiste. Non è ovunque così: l’ultima immagine di David Cameron, dopo la Waterloo della Brexit, è quella di un privato cittadino; John Major non ha più rivestito cariche pubbliche e Tony Blair fa da anni conferenze in giro per il mondo. Sono inglesi, si dirà.
D’accordo, però, Battaglia e Volterra ci ricordano che anche José María Aznar e José Luis Rodríguez Zapatero, che sono spagnoli, hanno chiuso con la politica al termine del loro mandato di primo ministro. E Lionel Jospin, dopo che nel 2002 non raggiunge neanche il ballottaggio alle presidenziali francesi, si ritira dalla vita pubblica in meno di 48 ore. Qual è allora l’anomalia italiana? Perché da Parri a Segni, da Togliatti a Nenni, da Craxi a Berlusconi passando per Fini e De Mita, la sconfitta è quella cosa che non s’accetta? «Perché questo è un paese in cui quando esci dalla scena politica non hai più un ruolo – dice a Tempi Paolo Pombeni, politologo dell’università di Bologna –. La politica italiana non ha una retrovia culturale, non contempla un riposizionamento strategico, ritiene perciò non valga la pena dispiegare un pensiero lungo. Come in un’assenza di prospettiva storica. D’altra parte, i think tank esistenti sono casematte di uomini politici. D’Alema continua a lamentarsi di dover interrompere lo studio a cui si dedica nella sua fondazione ItalianiEuropei perché le vicende della sinistra lo richiamano in campo. Ma, insomma, ciò che pare muoverlo è sempre il risentimento. Forse Romano Prodi…». Il quale tuttavia non restò proprio impassibile alla lusinga di rientrare in scena come presidente della repubblica.
Rancori fraterni
«Io mi sono alla fine convinto – dice Paolo Volterra – che la resistenza a un modello elettorale anglosassone e bipolare sia dovuto alla nostra stessa natura. Forse siamo costituzionalmente parlamentaristi, proporzionalisti e trasformisti: il compromesso storico, il consociativismo sono ancora la risposta che riusciamo a dare alla nostra incapacità di legittimare l’avversario, di attribuire alla sconfitta il ruolo fisiologico che riveste nelle altre democrazie occidentali».
E forse alla memoria sepolta delle nostre guerre civili: «Asociale, indisciplinato, né conservatore né rivoluzionario l’italiano – diceva Fabio Cusin nella sua Antistoria d’Italia – è sempre fazioso, perché i rancori fraterni non si dimenticano mai». Il carattere è destino.
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