‘Ndrangheta, Onlus e politici 68 arresti per l’abbuffata sulla pelle dei profughi.

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Milano 17 Maggio – Giuseppe Arena, il «Tropeano», Pasquale Arena, il «Nasca», Luigi Garnieri, il «Giobbo», Giuseppe Pullano, il «Tifuno», Giuseppe Lequoque, «Peppe Cannuno». Sono solo alcuni degli uomini che hanno trasformato il Cara più grande d’Europa, quello di Sant’Anna, a pochi chilometri da Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, in una fabbrica di soldi della ‘ndrangheta. Soldi fatti sull’accoglienza, che hanno prodotto la pax mafiosa tra i clan che si contendevano quel territorio. Milioni di euro provenienti da fondi Ue, che lo Stato ha girato dal 2006 al 2015 alle associazioni che hanno gestito il centro dei richiedenti asilo a Crotone. Oltre 103 quelli arrivati, oltre 35 quelli finiti nella «bacinella», così viene chiamato nel gergo della mala calabrese la cassa del clan.

Il romanzo criminale della famiglia Arena, raccontato dalla Procura antimafia di Catanzaro, che lunedì mattina ha fermato 68 persone e sequestrato beni per 84 milioni di euro, ricostruisce nove anni di gestione dell’accoglienza con metodo ‘ndranghetista. C’erano le intimidazioni, il servizio d’ordine del clan. E un capo: individuato dagli investigatori in Giuseppe Arena, il «Tropeano», al quale in paese perfino gli anziani si rivolgevano dandogli del «voi». Secondo la Procura si deve a lui la «pacificazione» tra i clan. È un uomo di rispetto il «Tropeano», che «ha assunto», stando all’accusa,«il ruolo di reggente dopo la sua scarcerazione, rappresentando la cosca anche nei rapporti con le altre organizzazioni ‘ndranghetistiche e decidendo la politica criminale della consorteria». E nelle strategie criminali del clan c’era il business legato al Cara. Tra gli arrestati ci sono Leonardo Sacco, presidente della sezione calabro-lucana della Confraternita delle Misericordie, organizzazione che da 10 anni gestisce il Cara (presidente anche della locale squadra di calcio, le cui quote sono state poste sotto sequestro), e il parroco del paese, don Edoardo Scordio, che per anni durante le sue omelie ha pontificato sull’accoglienza. Entrambi sono accusati di far parte del clan Arena, che per la Procura antimafia è «un’associazione di stampo mafioso».

Secondo i magistrati calabresi (l’inchiesta è stata coordinata dal procuratore Nicola Gratteri e dai sostituti antimafia Vincenzo Luberto, Vincenzo Capomolla e Domenico Guarascio), oltre ai vari reati finanziari per la distrazione dei fondi arrivati dall’De e girati al clan ma anche direttamente alla parrocchia di don Edoardo, i due si sarebbero macchiati anche di casi di «malversazione». I reati sono tutti aggravati dalla finalità mafiosa. Stando agli atti d’indagine (le attività investigative sono state messe in campo dai carabinieri del Ros, guidati dal generale Giuseppe Governale , in collaborazione con i finanzieri della Tributaria di Crotone), Sacco avrebbe stretto un accordo con don Edoardo (tra i fondatori delle Misericordie) per poter intascare tutti i subappalti legati al catering e ai servizi di lavanderia industriale per pulire lenzuola e tovaglie. E grazie a quell’accordo la ‘ndrangheta sarebbe riuscita a mettere le mani sui fondi per la gestione del Cara di Sant’Anna e di due Sprar (i centri del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) dell’area del Crotonese, ma anche per quella dei centri di Lampedusa. Tra gli indagati c’è anche il sindaco di Isola Capo Rizzuto, Gianluca Bruno (che è stato perquisito). Subiva il pressing di un altro indagato, Antonio Poerio , che non si fidava fino in fondo di don Edoardo e voleva l’allontanamento del sacerdote, sospettando che prima o poi avrebbe fatto qualche soffiata alla Procura. E poi, in poco tempo, le lamentele del clan sul sacerdote erano cresciute. Veniva accusato di sprechi per frequenti «banchetti» nel santuario della parrocchia e per «il tenore di vita» mantenuto «dai nipoti». Ma la preoccupazione era per il riserbo sugli affari. «Lui se la canta», dice Poerio in un’intercettazione. Ma il sindaco spende una buona parola per don Edoardo: «Vedi che se se ne va lui…te lo dico io…ci ripuliscono tutti». E poi, aggiunge il sindaco (che secondo i magistrati «è a conoscenza » delle distrazioni di denaro pubblico), «è difficile trovare un adeguato sostituto di don Edoardo». Ma «l’assistenza spirituale» del sacerdote ai migranti aveva un costo: i magistrati hanno stimato che solo per il 2007 don Edoardo ha incassato 132.000 euro. E, così, si è guadagnato sul campo il ruolo di «organizzatore» del «sistema» di sfruttamento delle risorse pubbliche destinate all’emergenza profughi, riuscendo ad aggregare, secondo l’accusa, le capacità criminali del clan Arena e quelle manageriali di Sacco.

Il grande affare dell’accoglienza, ritengono i magistrati, avrebbe fatto fare pace ai due cartelli della mala, quello dei Grande Aracri e quello degli Arena Dragone, che per anni si sono fronteggiati in una sanguinosa guerra di mafia a colpi di bazooka e kalashnikov. Fino al 2006, in coincidenza, sottolineano i magistrati, con l’arrivo dei flussi economici per l’accoglienza. Per gli investigatori non è un caso se il capannone deposito usato dalla Misericordia un tempo fosse appartenuto a Pasquale Tipaldi, uomo ai vertici del clan Arena ucciso nel 2005 e, oggi, ancora in mano ai suoi parenti. Da quel capannone partivano i pasti per i migranti. «Un giorno», ha raccontato il procuratore Gratteri,«sono arrivati 250 pasti per 500 migranti. Ebbene, 250 persone hanno mangiato il giorno dopo. Non solo era poco, ma solitamente era un cibo che si dà ai maiali» . Il procuratore lo dice in modo chiaro: «Il clan Arena si è arricchito sulle spalle dei migranti». Il Cara si era trasformato «in un bancomat della ‘ndrangheta». Così lo definisce il generale Governale.

Secondo il comandante del Ros era la cosca Arena «a scegliere i suoi uomini da far lavorare». E infatti, è spiegato nel decreto di fermo, che il clan avrebbe  «acquisito il controllo dei servizi subappaltati dall’ente gestore Misericordia», per il tramite di imprese di uomini del clan «dotate aziendalmente con denaro della consorteria». Il clan, insomma, guadagnava, ma investiva anche. Poteva farlo grazie alle«coperture» istituzionali, sulle quali l’indagine si sta concentrato in queste ore. «L’inchiesta non è finita», conferma Gratteri. E annuncia: «Stiamo lavorando sui rapporti di Sacco con altri pezzi delle istituzioni».

Fabio Amendolara (La Verità)

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