Milano 31 Luglio – Senza il comunismo, non ci sarebbe stato Enzo Bettiza. Nel senso, cioè, dell’intellettuale poliedrico – giornalista, scrittore, polemista e politico – che abbiamo conosciuto.
Il convoglio rosso della ideologia marxista-leninista, con il suo incessante sferragliare lungo il binario della storia novecentesca, è stato il sottofondo giornalistico, la fonte d’ispirazione saggistica, il basso continuo delle sue composizioni letterarie. Ed è ancora ai protagonisti storici del comunismo che si devono le sue definizioni più folgoranti. Marx? «Come scienziato della rivoluzione è un dio fallito». Il pensiero di Gramsci: «Un leninismo civilizzato e occidentalizzato». Il labirinto psichico di Lenin: «Un’intricata ragnatela ideologica, fatta di schemi e di veti, ch’egli difendeva con l’istinto di conservazione di un ragno, per il quale ogni smagliatura nella trama dei fili che lo proteggono e imprigionano insieme, è questione di vita o di morte». La carriera di Stalin: «Nasce dal fango delle rapine terroristiche nel Caucaso, attraversa il fango durante il genocidio contadino degli anni Trenta, e culmina nel fango con l’antisemitismo feroce e militante». Tito, «concorrente di Stalin, regista dei quaranta giorni di terrore a Gorizia e Trieste, delle foibe in Istria, dell’orrendo massacro di Bleiburg». Sartre, tipico compagno di strada del sinistrismo, cieco persino davanti al genocidio cambogiano: «La malafede pianificata che si propone come verità suprema».
Successivamente, nel misurarsi con le vicende politiche del dopoguerra, i giudizi di Bettiza si fanno oggettivi, all’insegna di un anticomunismo scientifico più che viscerale: il Pci di Togliatti, e poi di Berlinguer, gli appare «un partito misto, proletario e medio-borghese insieme, leninista nel suo zoccolo duro e gramsciano nella struttura intellettuale pigliatutto». L’analisi sembra pacata ma le conclusioni sono taglienti: il compromesso storico è una forma di anestesia morale della società italiana, indotta a credere, con la complicità della sinistra cattolica, nella presunta superiorità dell’eurocomunismo. E la possibilità di una «terza via» fra socialismo reale e capitalismo, vagheggiata dalla cultura politica fiancheggiatrice, gli appare «un vascello che porta solo sensi di colpa, un’ipotesi che non esiste, uno strumento ideologico di terzo grado, un pretesto per dire una cosa e farne un’altra».
C’è poi una dimensione segreta nell’anticomunismo di Bettiza, un qualcosa in cui mescola (o «emulsiona», come avrebbe detto lui) psicologia e ideologia, etica ed estetica. È a questa capacità quasi medianica di scendere al fondo dell’anima comunista che si deve il suo saggio più straordinario, Il mistero di Lenin, con la definizione connessa di homo bolscevicus. Erede allo stesso tempo di Rousseau e di Marx, l’homo bolscevicus per Bettiza è un modello di comportamento che aspira all’impersonalità, una specie di sacerdozio al servizio di una religione totale, destinata a trasformare in maniera irreversibile chi la pratica e, in prospettiva, il genere umano. La sua divinità, secondo i dettami di Marx, rimane il proletariato, ma è soltanto attraverso il Partito comunista che essa può trionfare. Al Partito ci si può iscrivere per motivi diversi – del resto a vent’anni lo stesso Bettiza aveva ceduto per breve tempo alla attrazione «della violenza, del male, del desiderio punitivo nei confronti del prossimo e della società». Ma, una volta entrati nell’habitat dell’homo bolscevicus, come affiliandosi a una eretica Compagnia di Gesù, occorre spogliarsi del passato, dei ricordi, degli affetti, assumere un nome di battaglia e impersonare il «rivoluzionario di professione». E qui Bettiza, con la chiaroveggenza di chi è ormai immune al contagio, lancia un’ulteriore provocazione: il bolscevico leninista incarna, senza saperlo, il Superuomo di Nietzsche. In un tale incontro ideologico fra i due grandi totalitarismi – nazismo e comunismo – ci sono già le premesse degli sviluppi successivi, a partire dai misfatti di Slobodan Milosevic, «lo sciacallo dei Balcani», con i suoi massacri e la singolare ideologia rosso-bruna, insieme nazionalista e leninista, destinata a ispirare altri politici dell’Europa centro-orientale.
Ecco perché il tema del comunismo costituisce l’ossatura del pensiero di Enzo Bettiza: dalle premesse giacobine fino ai nuovi totalitarismi e alle violenze di oggi, per lui è sempre al lavoro lo stesso virus; l’homo bolscevicus non muore, nonostante i vari travestimenti. Il mistero comunista si ripropone «lungo un rettilineo simile all’eternità. La sua storia può esistere soltanto come storia sacra».
È curioso che un pensatore come Enzo Bettiza, rigorosamente antimetafisico, sia stato attratto dallo studio del «comunismo come religione». Smascherata come fede falsa, eppure per tanti incrollabile. Probabilmente era proprio quel suo persistente nocciolo maligno – individuato già dall’amico GustawHerling – ad attrarlo e a risultargli insieme repellente. «No, per quanto mi sforzi non ci trovo niente da salvare», è stato il suo giudizio finale, lapidario sul comunismo. Condito da un lampo di sarcasmo dalmata: «Per qualcuno Mickey Mouse è di destra e Snoopy di sinistra. La vocazione al male: da Mao a Snoopy!».
Dario Fertilio (Il Giornale)
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