L’Epitaffio del popolo “Settant’anni di marcia verso il nulla”

Attualità

Milano 4 Agosto – Pubblichiamo integralmente l’articolo che segue a firma di Pietro Di Muccio de Quattro uscito sulla rivista “Intervento nella Società” (n. 3/2017, pag.13).

Politicamente parlando, il giorno più bello della mia vita non fu quando fui eletto deputato al Parlamento in un collegio uninominale contro il segretario provinciale del Pci appena ribattezzato Pds, sebbene considerassi l’elezione un grandissimo onore civile per un Italiano. No, non fu quello. Fu l’altro in cui vidi in diretta televisiva l’ammainabandiera del comunismo sovietico. La lenta discesa dal pennone del Cremlino del drappo bolscevico mi procurò una profondissima commozione, un misto ineffabile di felice tristezza. Tornarono alla memoria le parole profetiche di un memorabile discorso del presidente Ronald Reagan che nel 1982, nove anni prima, davanti al Parlamento britannico, dichiarò: “La marcia della libertà e della democrazia lascerà il marxismo-leninismo nella pattumiera della storia, dove ha lasciato altre tirannie che soffocano la libertà e imbavagliano la libera espressione dei popoli.” A causa della sua solenne profezia, il “capitalista” Reagan, adesso quasi unanimemente giudicato il più grande presidente americano della seconda metà del Novecento, fu coperto d’insulti dai comunisti d’ogni varietà e nazione. In Italia, i comunisti che poi si scoprirono “liberali” senza poterlo essere diventati, furono ovviamente in prima fila negli insulti, pur stando con la testa, se non con i piedi, nell’Impero del Male. Miserie passate, ma da non dimenticare! Quando l’Impero del Male implose, furono infinite le analisi sui perché e sui percome del crollo verticale di un regime accasciatosi su se stesso come un toro fulminato dall’espada. Ma quasi mai i Soloni del giornalismo, della politica, dell’accademia ammisero che la causa prima, “la causa causante non causata”, era proprio quella totale mancanza di libertà e democrazia che il “candido” Reagan aveva messo sotto gli occhi del mondo. Causa troppo semplice e troppo evidente per chi è accecato dall’ideologia, dal fanatismo, dalla fede religiosa in una religione materialistica e blasfema. La rivoluzione sovietica ebbe, è ovvio, molte cause. E l’odio fu tra le più importanti. Senza odio, è impossibile che si generi la violenza cieca delle elite e delle masse che scatenano le distruzioni rivoluzionarie.

La Rivoluzione di Ottobre, tuttavia, fu speciale in primo luogo perché mirava intenzionalmente a sopprimere la proprietà privata, causa e effetto del processo di civilizzazione umana. I bolscevichi non furono soltanto violenti e sanguinari, come dappertutto i loro eredi. Furono propriamente “selvaggi incivili”, un epiteto meritato appieno perché pretendevano di sostituire la civiltà conosciuta con un’altra civiltà sconosciuta, che secondo loro avrebbe dovuto necessariamente sorgere dalla negazione e cancellazione delle basi della civiltà che stavano annientando. Furono anche ottusi e testardi, perché, già appena conquistato il potere assoluto con il colpo di Stato, i capi bolscevichi, tra i quali non mancavano gl’intellettuali cosmopoliti, avrebbero potuto avvalersi di un’opera, essa sì davvero rivoluzionaria, che dimostrava l’impossibilità di funzionamento dell’economia imperniata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Nel 1922, sottolineo: 1922, un colosso del pensiero come Ludwig von Mises pubblicava “Socialismo”, una devastante critica del collettivismo, la quale mostra razionalmente non solo che il calcolo economico, prezzi e produzione, non può essere praticato dove manca il mercato, cioè la cooperazione spontanea degli individui nell’economia di concorrenza, ma anche che l’abolizione del mercato è “la via della schiavitù”, secondo il titolo del celebre libro di Hayek. Senza mercato, con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, i problemi economici non possono essere risolti. Da qui discendono la corruzione, consustanziale al collettivismo; il potere arbitrario, altrettanto consustanziale; la soggezione, restrizione, costrizione degli individui: “chi non ubbidisce non mangia”.

Dunque i capi, non il popolo (i poveri russi angariati, impoveriti, sterminati), potevano capire quel che facevano, fermarsi, tornare indietro, pentirsi della direzione intrapresa a prezzo di infamie, delitti, massacri. Invece proseguirono imperterriti sulla strada dell’inumanità e del disonore, incuranti delle “dure lezioni della storia”. Non s’avvidero d’esser diventati come mosconi che cercano invano di volar via attraverso una vetrata, fino a morirne scontrandovisi. Non senza un’amara ironia devo ricordare e sottolineare che il libro di Mises, micidiale per il comunismo, fu tradotto in italiano da Dario Antiseri per l’editore Rusconi soltanto 67, ripeto: 67, anni dopo la pubblicazione, cioè nel 1989, anno fatidico della caduta del muro di Berlino! Crollava il muro simbolo dell’oppressione comunista in Germania e crollava pure la censura italiana su quel caposaldo della libertà dei liberali e dunque dell’anticomunismo.

In secondo luogo, la rivoluzione russa fu speciale perché era già all’origine “internazionalista”. In essa lottarono i sostenitori del “socialismo in un solo paese” e i propugnatori della rivoluzione collettivista mondiale, sùbito o a tappe. Fu detto che vincesse Stalin e “il socialismo in un solo paese”. Ma non è vero. La teoria e la pratica della doppiezza morale e materiale furono scrupolosamente impiegate per difendere la rivoluzione ed espanderla, sia in modi diretti e palesi, sia con mezzi subdoli e obliqui. Ciò nonostante, il campo rivoluzionario collettivista si divise dietro alla Russia sovietica e alla Cina socialista, che conserva la dittatura del partito comunista sull’economia ribollente di capitalismo: la saggezza cinese, memore del piccolo Deng, dovette ammettere che il gatto rosso non acchiappava i topi.

Perciò, tra i miliardi di parole scritte e pronunciate sulla rivoluzione sovietica, a commento della sua fine mi piace più di tutto il giudizio di un anonimo manifestante russo che nel 1991 sfilava per Mosca inalberando questo cartello: “70 anni di marcia verso il nulla”. Geniale e reale epitaffio del popolo sulla rivoluzione sovietica. (l’Opinione)

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