Alda Merini, la donna, la poesia: intervista immaginaria

Cultura e spettacolo Le storie di Nene

Milano 11 Agosto – Era il 21 dicembre di un anno innominato. Il soffio della nebbia aveva il sapore della malinconia, gli alberi erano ombre protese verso il cielo, quasi una preghiera. E faceva freddo. E avevo tanto freddo nell’anima. Mi ritrovai a percorrere la strada lungo il Naviglio Grande per ritrovare un’amica, Alda Merini, amica del mio cuore poeta, amica di quella parte di me che tanto ama il suo canto. E, come sempre, pensavo: la guarderò, la ascolterò, la amerò con gli occhi dell’anima.

Alda Merini era là, il viso pallido e vulnerabile, gli occhi profondi e sinceri a mostrare senza ipocrisia gli abissi e i demoni di una vita difficile e straordinaria, era là, accanto alla finestra, ad immaginare la sua Milano, così amata, perché Milano era il suo sangue, la vertigine dei suoi ricordi, la cultura dei suoi padri. E di Milano, il Naviglio, di cui tante volte aveva ascoltato lo sciabordio leggero nelle notti insonni, popolate e vissute in compagnia della sua arte. Ma perché, dannazione, quelle finestre guardavano un cortile disadorno e sterile, chiuso e senza prospettiva? Il Naviglio, il suo Naviglio, fremeva al di là di tutto e lei lo sentiva, lo assaporava, lo teneva nel cuore, quasi fosse un amico, un tenero amico. La casa era arruffata, come sempre. Con quel disordine di chi non ha tempo per le cose, perché vive di creatività, di sogno.

Alle pareti, una ragnatela di numeri di telefono, scritti con un pennarello, con il rossetto, con qualsiasi cosa, pur di ricordare. E ogni numero rappresentava il suo legame con il mondo esterno. E le tante immagini appese del Papa, di Padre Pio ricordavano la sua spiritualità. E un presepe appoggiato con cura al centro di una credenza impolverata, simboleggiava l’umanità di Cristo.

Segue il mio sguardo: “Io amo il Cristo, perché è anche uomo ed ha amato i poveri gli umili, gli indifesi La mia è una religiosità che riconosce l’amore. Cristo è morto per noi, per questo gli ho fatto dire – Il supplizio della croce non è dolore vero,/ ma è una verità, / e questa verità trapela solo attraverso il legno. / E io su questo legno ho scritto i vangeli. / Il legno è poroso, un canto. / La croce è scrittura / l’urlo della croce non è altro / che un’invocazione assoluta dei cieli. – Vorrei tanto, prima di morire, sentire la presenza di Padre Pio e del suo profumo”. La voce è calda, un po’ roca,  per le tante sigarette Diana, fumate senza filtro. “E l’amore degli uomini?”, chiedo con pudore.  La fluidità dei suoi versi è tenerezza; “Ho bisogno di sentimenti / di fiori detti pensieri / di rose dette presenze / di sogni che abitino gli alberi / di canzoni che facciano danzare le statue / di stelle che mormorino alle orecchie degli amanti. – Ho amato e sono stata amata. Amo le mie figlie: sono la mia poesia più grande. Barbara, la mia prediletta, la sento ancora crescere nel mio corpo, quando la nostalgia di lei mi graffia il cuore. Forse non sono stata una madre esemplare, fuori e dentro i manicomi e con questo tarlo ossessivo della scrittura. Perché io alle emozioni devo dare una vita e non posso farne a meno. Ma avranno memoria del mio amore nelle mie poesie e capiranno, spero. Amo i barboni, gli abbandonati, i diversi, gli artisti di strada. Tano, il mio ultimo e tardivo amore era uno di loro, appassionato e fragile come me. Per il resto…. ci sono uomini buoni e i compagni della mia vita sono stati amorevoli e compassionevoli, ma l’uomo, in genere, non ha regole, nel Male”.

Quel male, il buco nero dal 61 al 79 della malattia, i ricoveri ripetuti e reiterati in manicomio, il vuoto dell’ispirazione, la negazione dell’essere persona. Sa che vorrei me ne parlasse, anche se non ama farlo. Ma Alda Merini ha deciso di regalarmi quello che può, il suo tempo, un po’ della sua anima e alcuni versi inediti: “C’erano sbarre / piene di fiori / in manicomio / ma nessun uomo / che guardava dentro […]. / A volte qualche tenero uccello / veniva a morire […]. / Così tanti amici miei / poveri innocenti, sono morti*. – E io grido, ancora e sempre, per loro che nessuno ha mai vendicato e pianto”. Le mani disegnano nuvole scomposte, le unghie rosse di lacca infiammano lo spazio, la voce ritorna impersonale e quasi assente a raccontare, con un lieve sorriso: “E’ successo che il mio cervello, ad un certo punto, era saturo ed è andato in vacanza. Non avevo più voglia neanche di un caffè. Non ero più nessuno ed ero felice di essere dimenticata. La follia non ha determinato la mia poesia. Ma la follia ha permesso che il mio inconscio gridasse, mescolando orrore, tenerezza, visione, sogno, violenza. Perché la follia ti spinge a guardarti dentro, senza ipocrisia, a frugare nella condizione umana, al di là di ogni schema, di ogni convenzione. Là c’era la musica. Non suonava nessuno. Ma la musica veniva dal cuore”. Accende una luce fioca. Un pianoforte nell’angolo, sembra abbandonato, ma è stato un dolce compagno, nell’adolescenza. Le note dell’Adagio di Albinoni, appena sussurrate, accompagnano le ultime riflessioni: “Io sono una privilegiata, la psichiatria non mi ha distrutto e oggi posso guardare il mondo, quello dei bambini, quello dei vinti, quello degli indifesi, quello degli emarginati, con una luce tenera di comprensione. Perché – Il poeta raccoglie i dolori e sorrisi / e mette assieme tutti i suoi giorni / in una mano tesa per donare”.

Lo stupore e l’incanto erano il mio pianto sommesso. Era tempo di tornare. Dal Naviglio una nebbia polverosa mi accarezzava lieve. Le luci mi ricordavano la vita.

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