Matteo Mattioli, laureato in enologia, sgobba otto ore al giorno nelle vigne del Reggiano per 450 euro al mese. «Ora rischio di vedermi rimpiazzare da alcuni immigrati. Sono quasi a costo zero: pur di farli assumere, il governo paga i loro stipendi»
Milano 19 Agosto – Sedicenti profughi da far lavorare gratis nei campi, pagati con le nostre tasse, al posto degli italiani che già guadagnano una miseria. E la cooperativa che riesce a farli assumere, magari si intasca pure un benefit. Li chiamano «percorsi di integrazione socio lavorativa» e sono dedicati ai «giovani migranti». In realtà si tratta di faticare sotto il sole come un qualsiasi bracciante agricolo, ma con la differenza che, se l’azienda al posto di un italiano assume un richiedente asilo deve versare solo una piccola parte della retribuzione. Perché al resto pensa l’ente pubblico, con i soldi nostri.
«Un anno fa mi sono laureato in viticoltura ed enologia. Oggi sto facendo un tirocinio in provincia di Reggio Emilia, con molti sacrifici: percepisco 450 euro al mese di rimborso spese e nulla più. Nei giorni scorsi, nell’azienda dove sto lavorando, si è presentato un rappresentante di una cooperativa di accoglienza della zona. Voleva proporre tre ragazzi, che grazie a un progetto ministeriale possono essere assunti, con un contratto di tirocinio, con un rimborso spese di 450 euro corrisposto dallo Stato e non dal proprietario dell’azienda come nel mio caso».
A raccontare la vicenda è Matteo Mattioli, laureato italiano che lavora in campagna per otto ore al giorno per un compenso da fame (quello stabilito dalla legge Fornero del 2013 che ha fissato un rimborso spese per i tirocinanti) e ora rischia di vedersi soffiare il posto da immigrati che possono usufruire dei progetti ministeriali.
Presentando al titolare dell’azienda la ghiotta occasione «il referente della cooperativa ha aggiunto anche che i ragazzi usufruiscono di vitto e alloggio presso la struttura che lui rappresenta e percepiscono anche un pocket money mensile di 75 euro per le piccole spese», spiega ancora Mattioli. «Io sono in camper da cinque mesi perché con il rimborso spese riesco, sì e no, a pagarmi il cibo, loro hanno una camera e gli viene fornito pranzo e cena, oltre alla colazione. Siamo all’assurdo: chiunque abbia una ditta può avere manovalanza gratuita (che paghiamo noi cittadini) e non assumerà più nessuno, nemmeno un pulcioso neolaureato a 450 euro, perché non gli conviene più» e intanto «paghiamo delle cooperative di accoglienza e gli immigrati che accolgono per prendere il nostro posto nel mondo del lavoro… E nessuno dice nulla».
In Emilia Romagna il fenomeno ha già preso piede. «Da tutto il territorio abbiamo ricevuto segnalazioni di cooperative che propongono, porta a porta, questa possibilità alle aziende agricole in cerca di stagionali», fa sapere Andrea Liverani, consigliere regionale della Lega Nord, che sul tema ha presentato una interrogazione. «Si tratta di una sperequazione inaccettabile che danneggia gravemente i giovani italiani».
Ma la sostituzione tra i tirocinanti italiani e quelli immigrati non è una vicenda locale, riguarda tutto il Paese. E tutti i settori. Funziona così. Enti pubblici e amministrazioni (a livello nazionale, regionale e comunale) possono attivare convenzioni con soggetti accreditati, anche privati, che si prodigano per inserire nelle aziende i richiedenti asilo.
Recentemente, per esempio, sono stati prorogati i termini per accedere al progetto di Anpal servizi spa (emanazione del ministero del Lavoro che ha preso il posto di Italia lavoro spa). Il plafond ammonta a 9 milioni di euro, solo per il biennio 2015-2016, i beneficiari sono i richiedenti asilo fino ai 23 anni e ognuno può usufruire di una dote individuale di 5.000 euro per cinque mesi di lavoro. Di questa quota, come si legge nel bando, 2.000 euro vanno a finire nelle tasche del mediatore tra il lavoratore e l’azienda (le cooperative), 500 euro possono essere erogati all’azienda per il tutoraggio, mentre 2.500 euro (500 euro al mese) sono destinati al lavoratore.
Ma esistono anche altre formule, come per esempio il progetto Lift, Lavoro immigrazione formazione tirocini, attivo del 2013, rinnovato più volte dal ministero del Lavoro e finanziato a suon di milioni (2,7 il primo anno di attività). In questo caso il tirocinio ha la durata di tre mesi e permette ai datori di lavoro di assumere fino a quattro richiedenti asilo, con due mensilità pagate direttamente dallo Stato.
Ma non è tutto. Anche a livello locale gli enti accreditati possono avviare tirocini finanziati per i profughi.
A Parma, per esempio, già dal 2016 sono partiti percorsi formativi nell’ambito dell’agricoltura, dell’artigianato e dell’industria metalmeccanica, destinati ai richiedenti asilo. A gestirli sono due enti che si occupano di accoglienza (Svoltare onlus e il centro di formazione Forma futuro) che hanno già inserito decine di immigrati in percorsi completamente finanziati.
Stessa cosa a Forlì, Cesena e Reggio Emilia dove i tirocini sono sostenuti attraverso i fondi Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) o con quelli dedicati alle persone svantaggiate.
A rischiare di rimanere esclusi dal circuito della formazione a causa della «concorrenza sleale» non sono solo gli italiani, ma anche gli immigrati che, per entrare in Italia, invece che ai barconi si affidano all’ormai obsoleto decreto flussi (la norma che annualmente stabilisce il numero degli stranieri che può entrare a chiamata).
Per il 2017 il decreto ha messo in palio 17.000 posti stagionali, ma fonti interne alle associazioni di categoria fanno sapere che a chi si rivolge alle prefetture o agli sportelli preposti alla compilazione delle domande per l’assunzione di questo tipo di lavoratori «viene caldamente raccomandato di attivarsi per l’assunzione dei tanti immigrati che sono già presenti sul territorio».
Alessia Pedrielli (La Verità)
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