La cavalla che beveva vino.

Zampe di velluto

Conoscendo la facilità con cui Giuseppe Garibaldi faceva a pezzi le persone durante le sue battaglie, stupisce apprendere che aveva rispetto per gli animali fino al punto di rifiutarsi di mangiare le loro carni. Amava moltissimo cavalli e cani, ma anche gatti, agnelli e pecore. Non si sa se la fama di amante degli animali lo avesse preceduto fino in Sicilia dove sbarcò con i suoi Mille o se fu solo un caso che il primo dono ricevuto sull’isola fosse proprio un animale. Era l’11 maggio 1860, lo stesso giorno dello sbarco, quando il marchese siciliano Sebastiano Giacalone Angileri raggiunse Garibaldi sulla spiaggia nei dintorni di Marsala tenendo per le briglie una giumenta grigio chiarissimo, di 14 anni: “Generale, questo è un dono per voi” disse porgendo le  briglie a Garibaldi. E così, in sella alla cavalla che fu ribattezzata Marsala in onore della località in cui era avvenuto l’incontro, Garibaldi affrontò l’intera campagna militare nel Regno delle Due Sicilie.

Dopo aver sterminato un gran numero di povera gente del meridione colpevole solo di voler restare fedele al proprio re, l’eroe ripartì per la sua isola di Caprera a nord-est della Sardegna portandosi appresso Marsala alla quale si era ormai affezionato tantissimo. A prendere la via del mare insieme a Marsala vi era anche uno stallone sottratto ai soldati napoletani, cui Garibaldi aveva attribuito il nome di “Borbone“, la dinastia che aveva sconfitto. In vecchiaia, quando la giumenta si ammalò, Garibaldi non sapeva darsi pace: piangeva, imprecava, tentava di farla riavere facendole bere vino della sua terra, il Marsala per l’appunto.

Certo è che con o senza vino del paese natio, per una cavalla sarebbe stato comunque difficile superare i 30 anni di vita, limite massimo per la specie. E Marsala aveva appunto 30 anni suonati! Allungare la vita di una cavalla che ha raggiunto il massimo delle aspettative di vita facendogli bere del vino è certo un tentativo ingenuo, eppure è proprio Clelia, figlia di Garibaldi, a scrivere in merito: “Egli non poteva rassegnarsi e fece di tutto per salvarla, ma purtroppo inutilmente. Quando temette che non ci fosse ormai più rimedio, volle fare un ultimo, disperato tentativo per cercare di ridarle un po’ di forza. Era d’estate. Fece prendere un grosso cocomero e lo spaccò. Nel mezzo fece un incavo che riempì di marsala e andammo insieme a farlo trangugiare alla moribonda. Pensava che, essendo vino del suo paese, la povera bestia ne potesse trarre giovamento. La cavalla bevve e parve un po’ sollevata. Ma solo per alcune ore. Purtroppo era giunta alla fine. Dopo un lungo nitrito, quasi a voler dire addio al suo amato padrone, morì”.

Neppure la morte ha potuto separare Garibaldi da Marsala, giacché la giumenta giace sepolta a pochi metri dalla tomba dell’eroe dei due mondi sull’isola di Caprera. Poiché la giumenta morì prima di lui, Garibaldi dettò un’epigrafe per lei: “Qui giace la Marsala che portò Garibaldi in Palermo, nel 1860”.

Per Garibaldi l’animale non era uno strumento, ma un essere vivente e pensante spesso assai più amabile dell’uomo. A Caprera aveva proibito la caccia agli uccellini e mal tollerava quella a cinghiali, lepri e conigli. Disse che al solo vedere un uccellino con la zampa spezzata gli faceva venir male. Lo studioso Manlio Brigaglia riferisce che nel 1866 la fattoria garibaldina contava 150 bovini, 214 capre, 100 pecore, 25 capretti, 400 polli, 50 maiali, 60 asinelli e 2 tori. E sapendo che Garibaldi non ne mangiava la carne, ci si domanda cosa mai se ne facesse di un tale assortimento. Certo, producevano tante uova e tanto latte, ma anche se tutti i componenti della famiglia si fossero fatti ogni giorno il bagno nel latte, ne avrebbe avuto comunque d’avanzo.  E non si può non menzionare le api, del cui miele era ghiotto: aveva cento arnie.

Non vanno poi dimenticati gli altri animali che non appartenevano alla sua fattoria. Ironico diceva che gli asinelli che amava alla follia erano: papa Pio IX, Napoleone III, Oudinot (generale francese che riconsegnò Roma al papa nel 1849). Oltre questi vi erano quattro cani: Aspromonte, Bixio, Foin e Tho.

Nell’aprile del 1871 Giuseppe Garibaldi fondò la prima societá contro il maltrattamento degli animali su esplicito invito di una nobildonna inglese, lady Anna Winter, contessa di Southerland. In sostanza, si trattava di una società che precorreva l’Ente nazionale protezione animali (Enpa). Si può dire dunque senza pericolo di essere smentiti che Garibaldi fu l’uomo che si diede un gran da fare sia per proteggere gli animali sia per ammazzare i cristiani!

Tratto dal libro “Cavalli e Ronzini” di Michela Pugliese

Sito: gocciadinchiostro.wordpress.com

 

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