Ho rinunciato a lui per amore: portarlo in città significava privarlo di un bene prezioso: la libertà
Questo è il racconto di un breve rapporto con un felino: un gatto randagio. Un animale tanto ordinario quanto poi rivelatosi per me speciale. Correva la fine degli anni Settanta, e io stavo prestando servizio militare di leva in qualità di ufficiale medico presso l’allora undicesimo battaglione trasmissioni Leonessa, all’epoca di stanza in Civitavecchia. Essendoci appena sposati e non volendo vivere separati, io e mia moglie Emilia avevamo-scelto di trascorrere un periodo a Santa Marinella, dove avevamo preso in affitto un appartamento, al terzo piano di una palazzina residenziale in stile mediterraneo, come ve ne sono diverse in quel tratto di costa. L’abitazione affacciava per gran parte sul mare e per altra minor parte sulla campagna retrostante, che appariva costellata di piccole villette con ampi giardini e di case coloniche con estesi orti, il tutto collegato da regolari stradine bianche. Era un bel mese di Ottobre . Ogni giorno guardavamo i tramonti sul Tirreno, o le burrasche nei giorni meno belli, facevamo passeggiate nei dintorni,o andavamo a cena in qualche trattoria tipica. In quel periodo Santa Marinella era pratica-‘ mente deserta e Civitavecchia non offriva un granché, almeno a noi due che, entrambi provenienti da Roma, eravamo abituati a un vivere alquanto più vivace. Mancavano gli amici, quelli dell’università e quelli al di fuori, che ambedue frequentavamo continuamente, da soli o in coppia. Mancavano i bei cinema, i teatri, le passeggiate sulla via Appia antica, al parco degli aranci all’Aventino, al Gianicolo. Dire che ambedue sperimentassimo per certi versi un certo senso di solitudine è forse eccessivo, la contentezza della nuova vita insieme mitigava le cose che ci mancavano, ma qualcosa difettava: erano i rapporti con il resto del mondo.Finché ci fu l’incontro. Una sera, tornando a casa, lo trovai ai piedi della scalinata a chiocciola esterna che conduceva agli appartamenti della palazzina. Era un bel maschio dal mantello fulvo, tigrato, quello che comunemente si definisce come gatto rosso, con una lunga coda ad anelli. Sedeva tranquillo sul primo gradino, e non si spaventò quando gli dissi: ciao, ma rispose emettendo un miagolato basso e amichevole. Vidi che pur essendo di buona corporatura, non appariva molto nutrito; capii che aveva fame. Ero giusto passato al macellaio, e tra le altre cose avevo comprato del macinato, destinato a farci delle polpette: aprii il cartoccio e gliene detti una manciata. Lui la divorò veloce e miagolò ancora.
Presi un’altra manciata e gliela offrii; stessa cosa. Il gatto mi seguì, su fino alla porta di casa, come se mi conoscesse da tempo. Emilia fu sorpresa e felice nel vederlo, dato che tutti e due avevamo sempre amato i gatti. Decidemmo di chiamarlo Biagio. Biagio, pur vivendo la sua vita di gatto libero, trascorreva molto del suo tempo con noi. Sapeva farsi apprezzare e meritarsi il bene che noi gli volevamo. Era affettuoso e discreto, non faceva danni, se doveva espletare le sue necessità fisiologiche miagolava alla porta e usciva, per poi tornare poco dopo. Per noi era di grande compagnia. Amava sonnecchiare sulle nostre ginocchia, meglio se davanti al camino acceso e con le sue fusa ci trasmetteva un senso di tranquillità. Alla sera, al momento di andare a letto, saltava su e con il suo ronfare ci aiutava a entrare nel regno di Morfeo. A cena, pur sazio degli alimenti per gatti che compravamo per lui, seduto su una delle sedie, come da bravo commensale gradiva quasi tutto dalla nostra tavola: dalle patatine fritte ai biscotti, perfino delle foglie di carciofo; lo faceva per gustare con noi il rito antico della condivisione del cibo. E a noi due piaceva occuparci di lui, sembrava che questo desse un senso a quei mesi che per noi erano uno stalla. Chissà per quale motivo il gatto ci aveva scelto come umani di elezione, tra i tanti bipedi che conosceva. Non certo per il cibo, che lui comunque in qualche modo sarebbe riuscito a procurarsi come aveva sempre fatto. Nemmeno per il caldo d’inverno, dato che il gatto non teme un freddo moderato come quello di Santa Marinella. Comunque, era quasi incredibile, che un animale così piccolo potesse donarci tanto benessere. A volte eravamo in casa anche la mattina. Quando succedeva, all’ora di pranzo Emilia chiamava Biagio dal ballatoio delle scale. Il gatto riconosceva la sua voce, la sentiva a centinaia di metri di distanza; lo vedevamo giungere di corsa da lontano, attraversando ortaglie, trottando sulle sommità di muri per poi piovere a terra, saltando piccoli fossi e infine precipitandosi su per le scale. In un paio di occasioni ci fece preoccupare.Una volta lo vidi mogio, prostrato, aveva il naso caldissimo, mangiava poco; mi accorsi che era malato. Un breve esame esterno mostrò che aveva una lacerazione ascessuata dietro una delle orecchie, esito evidente di una zuffa felina. Dovetti praticare una piccola incisione e spremere la raccolta. Fu certo doloroso, ma Biagio non solo accettò l’intervento dell’umano, ma anche sopportò coraggiosamente l’operazione (pur ringhiando), così come un paio di successive iniezioni di cefalosparina di terza generazione che lo rimisero in sesto.
Il bello fu che non mi aggredì mai; un uomo non sarebbe stato così stoico. Un’altra volta tornò con un amo da pesca conficcato in una gengiva, quasi certamente rimediato dentro una testa di pesce offertagli da qualche distratto o peggio. Asportarlo mi sembrò complesso; chiesi l’intervento di un veterinario che fortunatamente riuscì a estrarre il ferro senza danno. Giunse il mese ‘ di luglio e con quello arrivò per me il giorno del congedo. Le scuole erano in vacanza, Emilia era libera da tempo, restate aveva richiamato gente nel palazzo e nella cittadina. Biagio aveva da tempo diradato le sue visite, poiché le belle giornate lo impegnavano in gatteschi amori e lunghi giri, ma continuava a venirci a trovare, stava un poco con noi e poi se ne andava. Il giorno della partenza lo cercai, ma intorno non c’era. Poi, caricando le ultime cose in auto, lo vidi. Se ne stava accoccolato sopra un capitello di marmo all’ingresso del vialetto e mi fissava tranquillo. Ebbi una stretta al cuore, perché capivo che quello era un addio, che stavo per perderlo. Era finita la mia amicizia con quel gatto, che aveva rappresentato una parte nella mia vita lo stavo mandando via per sempre e Biagio rimaneva: per un attimo pensai che lo stavo abbandonando, che stavo tradendo la sua fiducia. Mi interrogai allora se portarlo con me. Fu nello sguardo sereno di Biagio, che non mi staccava i suoi begli occhi gialli di dosso, che trovai la risposta . Se l’avessi fatto, lo avrei strappato dalla sua esistenza, e alla fine gli avrei tolto di più di, quanto avessi potuto dargli, rinchiudendolo in un appartamento nel quale avrebbe visto solo me e Emilia e sarebbe vissuto quasi sempre solo, privato del bene prezioso della libertà. La sua felicità era qui, all’aria aperta e in ampi spazi, tra i giardini, gli orti e le bianche stradine percorse dal vento del mare.
ALESSANDRO MARZIOLI (Libero)
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