Col trascorrere degli anni divenne sempre più difficile amministrare e tenere unito il vastissimo Impero Romano che iniziò a sfasciarsi soprattutto ai confini. La causa principale fu l’infiltrazione di popolazioni barbariche che, trattandosi di nomadi sempre alla ricerca di zone più ricche, nel III secolo d.C. iniziarono a compiere incursioni all’interno dei confini romani. Nel secolo successivo le incursioni si trasformarono in immigrazioni.

Essendo abili e feroci guerrieri che consideravano un onore morire in battaglia, all’inizio i romani arruolarono questi barbari come soldati, ma infine le immigrazioni si trasformarono in vere e proprie invasioni di guerrieri che saccheggiavano e distruggevano ogni cosa. Il nome barbaro, che in principio designava solo uno straniero con differente linguaggio, finì per assumere una connotazione spregiativa indicando un individuo incivile. Per queste popolazioni barbariche, altrimenti dette germaniche, che facevano della guerra un’attività fondamentale, la divinità principale era Odino (in lingua norrena Odino, in lingua sassone Wodan, e in lingua tedesca antica Wotan), il dio della guerra. Al seguito di Odino vi erano le Valchirie, degli esseri femminili che percorrevano i campi di battaglia a cavallo, per scegliere chi dovesse morire. Dopo aver scelto le vittime, portavano i defunti nel Valhalla al cospetto di Odino.
Pur occupando una posizione dominante nel pantheon germanico come governatore del cielo e della terra, oltre che creatore, Odino non aveva i caratteri delle divinità supreme di altri popoli di lingua indoeuropea, come il greco Zeus o il romano Iuppiter. Possedeva una suprema sapienza magica, per acquistare la quale, aveva dato in cambio un occhio della testa: Odino era dunque una divinità con un occhio solo. La sua potenza era limitata unicamente dal fato.
Benché i romani giudicassero incivili le popolazioni barbariche, queste li seppero stupire: sapevano fare il burro, il sapone, lavorare il cuoio e i metalli dai quali ricavavano solide armi e gioielli. Indossavano anche i pantaloni, abbigliamento sconosciuto ai romani, ma più comodo per andare a cavallo. Essi erano infatti abili cavalieri e allevavano cavalli di razza, oltre a capre e pecore che si portavano appresso durante le migrazioni. Abitavano in carri a quattro ruote, molto pratici per i loro continui spostamenti, ma non sapevano scrivere. Sceglievano un capo solo quando andavano in guerra, e seppellivano i loro morti provvisti di armi, gioielli e vasellame d’oro.
Dopo l’incontro con i romani, le abitudini di entrambi i popoli iniziarono a modificarsi. I barbari cominciano a parlare il latino e i romani cominciano a parlare le lingue dei barbari, o almeno a usare alcune delle loro parole ed espressioni. Anche i cavalli subirono una trasformazione: ogni popolazione barbara arrivava con i suoi cavalli che inevitabilmente si mischiavano col cavallo romano. Tuttavia alcune famiglie di cavalli romani riuscirono a mantenere nel corso dei secoli i loro caratteri. Ciò era dovuto al fatto che dopo la caduta dell’Impero ci fu un progressivo abbandono di immensi territori (come la Maremma) che, a causa della distruzione o del disuso degli acquedotti e delle opere idrauliche, si trasformarono in una sconfinata palude. Qui alcuni cavalli vissero isolati preservando i loro caratteri.
Benché i popoli barbarici avessero introdotto nell’impero le loro divinità nordiche, non vi furono molti attriti religiosi tra le due culture. I contrasti per questioni religiose si verificarono invece all’interno del cristianesimo che ormai, grazie all’imperatore Costantino, era divenuta la religione di Stato bandendo il paganesimo romano. Così, nel 395 d.C., l’impero romano fu diviso in Impero d’Occidente e Impero d’Oriente.
Insieme ai loro antichi dei, i romani persero anche la loro combattività e lo spirito conquistatore: quando i Visigoti guidati dal re Alarico attraversarono l’Italia e giunsero alle porte di Roma, anziché respingerli, i cittadini gli andarono incontro offrendo oro con la speranza di evitare la distruzione della città. Il re barbaro accettò l’oro, ma anziché tornare sui propri passi, si accampò nei dintorni. Alla fine decise di saccheggiare ugualmente Roma: era l’anno 410. Infine, appesantito dal ricco bottino, l’esercito barbaro si diresse verso sud con l’intenzione di raggiungere l’Africa; ma giunto in Calabria, Alarico morì improvvisamente. I suoi soldati ne seppellirono il corpo nel letto del fiume Busento, presso Cosenza, e lasciarono l’Italia.
I Visigoti, insieme agli Ostrogoti, derivavano dalla divisione del popolo dei Goti, i quali ritenevano che tra tutti gli animali solo il cavallo potesse provare emozioni. Anche per questo presso i Goti, e i due gruppi da essi derivati, mangiare carne di cavallo costituiva reato gravissimo.

Mentre l’impero era intento a difendere le zone interne dai saccheggi di alcuni gruppi germanici, altri ne approfittarono per occupare le zone più esterne: i Franchi conquistarono la Gallia e gli Angli e i Sassoni occuparono la Britannia. I Vandali, invece, intimoriti dall’avanzare degli Unni, una popolazione non germanica ma più barbara di tutti i barbari, si diressero verso la penisola Iberica distruggendo tutto ciò che incontravano sul proprio cammino. Erano diretti verso le coste africane dove infine s’insediarono: abbattevano alberi e templi; incendiavano case e fondevano opere d’arte per prelevarne l’oro e l’argento. La loro devastazione fu tale che ancora oggi si dà il nome di vandalo a colui che distrugge per il piacere di distruggere.
Gli Unni non inseguirono i Vandali che scappavano dinanzi a loro: preferirono scendere in Italia. Si trattava di una stirpe mongolica guidata dal terribile re Attila, che riusciva a far paura ai romani e ai germanici nella stessa misura: si sparse per la Pianura Padana saccheggiando non meno di quanto avevano fatto i Vandali nella penisola Iberica. Un eremita chiamò Attila “flagello di Dio”, appellativo che piacque talmente tanto al re unno che decise di adottarlo come un augurio e convinse i popoli che lo meritava. Egli stesso diceva: “Dove posa lo zoccolo il mio cavallo non cresce più l’erba”.
Gli Unni si cibavano di carni che ammorbidivano mettendosele sotto il deretano. Siccome trascorrevano parecchio tempo a cavallo, sistemavano infatti le carni sotto la sella per renderle più tenere. Lo storico Ammiano Marcellino, nelle sue Rerum Gestarum (IV sec d.C) riferì sul loro conto: “Sono così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce ed il dorso dei cavalli. Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti, anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle consuete occupazioni. Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto collo del cavallo, si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di sogni”.
I rozzi e incivili Unni, partiti dalle lontane regioni dell’Asia orientale, disponevano di tecniche evolute di sellatura e ferratura di staffe che rendevano la cavalcata più stabile. I romani cavalcavano invece senza staffe. In quanto alla sella, presso i romani la parola fu introdotta al tempo dell’imperatore Costantino, ma la adottarono dopo averla notata sui cavalli delle popolazioni barbare. Gli Unni, che vivevano in groppa al proprio cavallo, grazie all’applicazione di queste tecnologie, riuscirono a sfruttare appieno le capacità muscolari e l’agilità del cavallo. Anche gli Unni erano soliti seppellire i cavalli insieme ai cavalieri. Il cavallo era abbattuto alla morte del suo padrone e sepolto nella fossa contemporaneamente, secondo il primordiale ruolo di accompagnatore delle anime dei morti nell’Oltretomba. Il guerriero e il suo migliore amico, restavano così uniti nella morte come lo erano stati in vita.
Assetati di bottini come tutti i barbari, gli Unni decisero di saccheggiare la città più ricca della penisola; ma mentre Attila si dirigeva verso Roma col proposito di spogliarla e distruggerla, papa Leone I si muoveva verso di lui col proposito di fermarlo. Attila, che non aveva paura di nessuno e non si fermava dinanzi a nessun’arma, davanti a quel vecchio pontefice che gli andava incontro armato soltanto di una croce, cadde ubbidiente in ginocchio. Poco dopo abbandonava l’Italia lasciando una scia di desolazione dietro di lui; solo Roma fu risparmiata dal ‘flagello di Dio’. In realtà, a convincere Attila fu il ricco tributo offertogli dal papa, più che il crocifisso espostogli dinanzi; ma ciò non impedì il diffondersi della voce che si era trattato di un miracolo.
Dopo gli Unni, a calare nella penisola fu nuovamente una popolazione germanica: gli Eruli, al comando del loro re Odoacre. Sul trono di Roma sedeva in quel tempo un fanciullo chiamato in senso dispregiativo Romolo Augustolo. Dopo averlo deposto, Odoacre governò al suo posto. Ciò accadeva nell’anno 476 d.C. e, dopo tale data, non seguì nessun altro imperatore romano. Era la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Cominciava così la nuova epoca, detta Medioevo.
Per dieci anni Odoacre governò indisturbato sulla penisola, fino a quando scesero in Italia gli Ostrogoti, il secondo dei popoli derivante dalla divisione dei Goti. Furono questi, che al seguito del loro capo Teodorico, sconfissero Odoacre.
Teodorico elesse Verona sua capitale e nei primi anni del suo regno fu uomo giusto. Invecchiando, però, divenne crudele. Secondo una leggenda, mentre Teodorico faceva il bagno in un fiume, apparve un cavallo nero. Teodorico gli saltò in groppa e il cavallo lo condusse al galoppo fino in Sicilia. Giunto sull’Etna, il cavallo si impennò scaraventando il vecchio imperatore nel cratere del vulcano. Anche gli Ostrogoti praticavano il seppellimento contestuale dell’uomo e del cavallo, ma considerate le circostanze, Teodorico fu forse l’unico re barbaro a non beneficiarne.
Sul trono dell’Impero Romano d’Oriente, che a differenza di quello d’Occidente ancora resisteva, sedeva intanto Giustiniano, il quale riuscì a cacciare gli Ostrogoti dall’Italia. Morto Giustiniano, però, i suoi successori non seppero mantenere il dominio sulla penisola che in parte ricadde in preda ad altri barbari, i Longobardi. Questi elessero Pavia quale capitale. Non si comprende bene se fossero così chiamati perché erano armati di lunghe alabarde oppure per via della loro lunga barba bionda. Li conduceva il loro crudele e feroce re Alboino che sposò Rosmunda, la figlia di un re nemico che egli stesso aveva ucciso. Durante un banchetto, questo re crudele e pazzo costrinse la sposa a bere nel cranio del padre ucciso. Per questo e per altri atti di crudeltà da lui compiuti, Alboino fu infine assassinato.

I feroci costumi dei Longobardi si mitigarono quando Teodolinda, sposa del re Autari, si convertì al cattolicesimo e fece battezzare anche il figlio, e futuro re, come cattolico. Così, dopo essersi dedicati per anni alla distruzione delle chiese, i Longobardi iniziarono a edificarle. Nel Duomo di Monza si conserva ancora oggi la Corona ferrea con la quale si incoronavano i re longobardi. Nella corona è racchiuso un chiodo che, secondo la tradizione, fu tolto dalla croce di Cristo. Oltre alla nuova religione, in Italia i Longobardi conobbero anche la staffa che era stata portata dagli Unni. Benché i Longobardi fossero entrati in contatto con altri popoli barbari che usavano la staffa (gli Avari), non l’avevano adottata prima di giungere in Italia.
Prima di convertirsi al cristianesimo le usanze funerarie dei Longobardi rispecchiavano quelle degli altri popoli di origine germanica: compivano il rituale della sepoltura del cavallo col suo cavaliere per soddisfare la necessità di avere con sé, nell’aldilà, il proprio cavallo. Inoltre nella mitologia germanica è sempre il cavallo, montato da valchirie, a trasportare gli uomini tra le braccia degli dei del loro Olimpo: il Walhalla.
Prima di giungere nella penisola, i Longobardi avevano vissuto più di cinquant’anni in Ungheria, e attraverso i vicini Àvari, diretti discendenti degli Unni, avevano appreso tutto quanto vi era da conoscere sui più ancestrali riti guerrieri un tempo appartenenti agli Sciti: l’intera esistenza di questo nuovo popolo nordico temprato dalla steppa ruotava interamente attorno alla venerazione per il cavallo. Dieci tombe longobarde con seppellimento contemporaneo di uomo e cavallo furono scoperte nel 1987 e negli anni successivi a Campochiaro Vicenne (Campobasso).
Nella necropoli di età longobarda di Povegliano, in provincia di Verona, furono rinvenuti in mezzo a numerose tombe umane del VII sec. d.C. uno scheletro di cavallo mancante del capo e due scheletri di cane. Il cavallo giaceva sul suo lato sinistro, con le zampe un po’ ritratte. Sembra che il cranio sia stato staccato prima della deposizione nella fossa. Si tratta di un procedimento riscontrato anche altrove nel primo Medioevo. Deposizioni di cavalli decapitati (i crani staccati vennero trovati soli in altre tombe) si sono rilevate spesso in territorio alemanno nella Germania meridionale. La decapitazione resta tuttavia un’usanza minoritaria rispetto a quella dell’inumazione di animali completi. Anche le inumazioni di cani, meno frequenti di quelle con i cavalli, erano effettuate fra i Longobardi in Italia (per es. cavallo e cane sono in relazione con tombe umane a Nocera Umbra in una necropoli del VII secolo). Come il cavallo, i cani erano seppelliti dopo la loro uccisione con lo scopo di accompagnare l’uomo nella sua ultima dimora. Anche i vichinghi, popolo di guerrieri e navigatori provenienti dalla Scandinavia, che terrorizzarono l’Europa circa mille anni fa, credevano che i morti andassero nell’aldilà a cavallo o in nave. Perciò nelle tombe vichinghe si rinvengono anche scheletri di cavalli e resti di navi.
Tratto dal libro “Cavalli e Ronzini” di Michela Pugliese
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