Milano 5 Dicembre – Parlare di una mostra di James Nachtwey, il reporter di guerra per eccellenza dei nostri tempi, può sembrare relativamente semplice: i suoi scatti sono indimenticabili, nella loro commistione di orrore e perfezione; il suo obiettivo ci svela il nostro mondo per come non lo abbiamo conosciuto, ce lo rivela nella sua terribile vastità e sofferenza. In qualche modo la comprensione di questo mistero che unisce la bellezza (delle immagini) e la morte (che quasi sempre le stesse immagini raccontano) è a sua volta un antidoto, un modo per renderci partecipi delle tragedie colossali, lasciandoci però quel distacco, quella distanza, che in fondo ci salva, ci permette di non finire scorticati. Tutto questo è vero, ed è anche il sostrato teorico (e morale) che sostiene la retrospettiva “Memoria”, che Roberto Koch ha curato, insieme allo stesso Nachtwey, per Palazzo Reale a Milano.
Stando dentro la mostra, però, si sente anche altro, si sente una forza oscura, si percepisce il vuoto assoluto sopra il quale stiamo camminando. Il punto, e qui cerchiamo di prendere la strada più “difficile” per raccontare l’esposizione, è che il distacco non basta più, il punto è che nelle immagini di Nachtwey, che sono un’altra dimostrazione di come l’artefatto possa essere così incredibilmente aderente all’idea di realtà pur restando – per forza – un artefatto, in queste immagini dicevamo si sente non solo l’urgenza di ricordare per non ripetere, ma soprattutto la fragilità assoluta dell’umano. Come se secoli di tentativi moderni di dare una forma razionale al mondo, diciamo banalizzando da Cartesio in avanti, non possano fare altro che naufragare di fronte al corpo di un uomo somalo in totale denutrizione o alla documentazione della chirurgia di guerra. Una fragilità che assorbe tutto, che diventa soffocante e intollerabile e che innesca altre domande, ancora più oscure, sul nostro stesso ruolo di spettatori.
Da questo punto di vista la bellezza tecnica, e in alcuni casi assoluta, delle fotografie non appare più una forma di sollievo, ma diventa, passateci il termine, una “aggravante”, nel senso della profondissima intensità del turbamento che innesca, nel senso della consapevolezza della convivenza tra la meraviglia e l’inferno come impossibilità di trovare una vera via d’uscita. Perché dall’umanità, sembrano urlare queste fotografie, non c’è via d’uscita. Ecco perché scrivere di Nachtwey è difficile (ed ecco anche forse perché lui parla poco): perché, come in un’opera teatrale di Samuel Beckett, lo spazio è soprattutto per i silenzi.
C’è comunque una parola che questi silenzi li può rompere, e la scrive lo stesso fotografo quando in una lettera a un amico spiega che ciò che cerca di applicare nel suo lavoro è “essenzialmente la compassione”. Ossia la capacità – attenzione, pure questa problematica – di essere al fianco degli altri e accanto alla loro sofferenza. In una storia professionale come quella di James Nachtwey che, ha giustamente notato Roberto Koch, è fatta di continui punti di non ritorno, la postura compassionevole è decisiva soprattutto per il fotografo, cui viene chiesto dal pubblico, da noi, di non impazzire mentre, in un certo senso, si fa carico del peso del mondo. Poi allo stesso pubblico spetta il compito di usare quell’esperienza della compassione osservando a occhi aperti questa mostra terribile e straordinaria sugli esseri umani. Senza dimenticarci che quasi nessuno dei mostri che si incontrano nelle fotografie – il cecchino croato che spara da una camera da letto ai suoi vicini musulmani ne è la più evidente prova – è poi così diverso da noi. Forse, alla fine, è questa la memoria che la mostra ci invita a conservare. (Askanews)
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