Nel 732 gli arabi misero radici in Spagna e vi rimasero fino al 1492 quando Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona portarono felicemente a conclusione la “Reconquista”. Non tutta la penisola però era sotto il dominio arabo: cattolici e musulmani lottavano fra loro per il predominio. In questo panorama operò un personaggio che entrò nella leggenda. Il suo nome era Rodrigo (o Ruy) Diaz conte di Bivar, meglio conosciuto con il nome di El Cid Campeador. Rodrigo nacque, intorno al 1040 d.C., a Bivar, un paesino vicino a Burgos nel regno di Castiglia. Proveniva da una famiglia della piccola nobiltà castigliana. Essendo imparentato con la famiglia reale, ed essendo rimasto orfano di padre nel 1058, crebbe alla corte del re Fernando I di Castiglia insieme al principe Sancho e ai suoi fratelli. Ebbe dunque un’educazione degna di un principe.La leggenda vuole che al momento del suo battesimo il suo padrino, un monaco chiamato Peyre Pringos (“Pierino Grasso”) gli regalasse il cavallo che poi lo accompagnò in tutte le sue avventure. Il monaco poté offrire al giovane una scelta dei migliori puledri, poiché a quel tempo i monasteri spagnoli erano per tradizione impegnati nell’allevamento dei cavalli; tuttavia il ragazzo scelse un animale particolarmente immaturo e insignificante, facendo esclamare al suo padrino: ”Babieca!”, cioè stupido, nome con il quale il cavallo divenne famoso. Fu Babieca il cavallo col quale Rodrigo si allenò per divenire abile combattente. Un cavallo di fiducia dunque già lo possedeva quando intorno al 1060 fu investito cavaliere.
La leggenda, ripresa poi dalla letteratura nata attorno a questo personaggio, lo descrive quale gentile e coraggioso cavaliere medievale, fedele al suo paese, che prese parte alla Riconquista. Fu persino innalzato a simbolo del patriottismo spagnolo, ma in realtà si trattava di un mercenario che combatteva per i mori e per i cristiani senza nessuno scrupolo. Si trattava insomma di uno spietato soldato di professione, senza principi morali, disposto a tutto pur di raggiungere la gloria: e in effetti, passò alla leggenda come eroe. Il soprannome El Cid Campeador gli venne attribuito dopo una vittoria in un duello. In realtà, il soprannome è composto da due parti: El Cid, nomignolo datogli dagli arabi, che significa “Il signore” in una lingua mista di spagnolo e arabo; e Campeador, che in spagnolo significa “Il campione” o “Vincitore del duello”. Questo soprannome, quindi, dimostra che il personaggio godeva del rispetto e dell’ammirazione sia tra gli spagnoli che tra gli arabi. Il re Ferdinando I°, alla sua morte avvenuta nel 1065, divise il suo regno fra i suoi figli. Il maggiore, Sancho II°, ebbe la Castiglia e la città di Zaragoza, Alfonso VI° ricevette Leon e la città di Toledo e l’altro figlio, Garcia, ricevette la Galizia e il Portogallo. Alle due figlie diede le città di Tora e di Zamora.
Com’era prevedibile, i contrasti fra i fratelli scoppiarono poco dopo la morte del padre. Sancho II°, essendo il figlio maggiore, si considerava il vero erede del padre e cercò di riunificare il regno, anche con l’uso della forza. El Cid, che si era distinto nella guerra vinta contro il regno di Aragona, divenne, a soli 23 anni, capo dell’esercito castigliano e, con questo grado, prese parte alla guerra fratricida agli ordini di Sancho II°. Sancho II°, dopo aver conquistato la Galizia e il Leon, mandò suo fratello Alfonso in esilio a Toledo. Strappò la città di Tora a sua sorella Elvira e cominciò la battaglia per strappare all’altra sua sorella, Urraca, la città di Zamora. Era il 1072 quando Sancho II°, al culmine della gloria, venne ucciso da un soldato di Urraca. A succedere a Sancho venne chiamato il fratello Alfonso che, richiamato dall’esilio, arrivò in Castiglia guardato con sospetto dai castigliani che non vedevano di buon occhio la sua presenza, soprattutto perché si sospettava che fosse in qualche modo coinvolto nell’assassinio del fratello.
In principio i rapporti tra il nuovo monarca ed El Cid, non erano idilliaci. Il cavaliere era un personaggio molto popolare e un valido combattente; Alfonso VI° non poteva non temere che un giorno potesse rubargli il trono. L’astuzia lo spinse dunque a ricercare con lui un’alleanza. Fu così che lo legò alla casa regnante dandogli in sposa sua nipote Jimena. Alla prima occasione, però, Alfonso fece il modo di liberarsi dell’ingombrante alleato spedendolo in esilio. La ragione di questa espulsione non è del tutto chiara; potrebbe essere stata determinata dalla gelosia dei nobili castigliani o dall’accusa di essersi appropriato di denaro della stato. Oppure il monarca si era adirato per una spedizione militare non autorizzata contro Granada. Fatto sta che nel 1081 El Cid iniziò la sua carriera di mercenario e offrì i suoi servigi al miglior offerente, che in quel momento era al-Mu’tamin, monarca arabo della città di Zaragossa. Anche al suo servizio il cavaliere continuò a perseguire successi militari che fecero accrescere notevolmente il suo prestigio.
Nel 1086 iniziò la grande invasione degli Almoravidi, popolazione araba proveniente dall’odierno Marocco. Dopo essere stato sconfitto nella battaglia di Sagrajas, Alfonso VI° capì che non poteva fare a meno di El Cid e lo richiamò al suo servizio. Ma ormai i rapporti tra i due erano compromessi e inevitabilmente si giunse presto a una nuova rottura. Così, libero da qualsiasi vincolo, alla guida del suo esercito personale, composto sia da cristiani che da arabi, El Cid si mosse in direzione della città costiera araba di Valencia per approfittare di una rivolta scoppiata nel 1092 a seguito dell’assassinio di al-Qadir, monarca locale, ad opera di un nobile. La battaglia di Valencia fu lunga e cruenta e solo nel Maggio del 1094 la città si arrese. Ufficialmente El Cid governò per conto di Alfonso VI, ma il re di Castiglia non gli aveva dato ufficialmente alcuna autorità. Tuttavia era troppo debole militarmente per intervenire e reclamare la città. Quindi, di fatto, El Cid governò come un vero e proprio monarca. Il suo regno durò fino alla sua morte avvenuta il 10 Luglio 1099.
Dopo tale data il governo passò alla moglie Jimena che, pressata dagli Almoravidi, dopo ave resistito per tre anni chiese l’aiuto del cugino Alfonso VI° il quale, raggiunta Valencia col proprio esercito, ritenne la città indifendibile e l’abbandonò dopo averla data alle fiamme. Jimena ed i suoi soldati seguirono Alfonso trasportando il corpo di Rodrigo, che venne tumulato a Burgos, nella chiesa di San Pietro di Cardeña (durante la Guerra d’indipendenza spagnola del 1808-1814 i soldati francesi profanarono la sua tomba, ma in seguito i suoi resti furono recuperati e, nel 1842, traslati nella cappella della Casa Concistoriale di Burgos. Dal 1921 riposano insieme a quelli di sua moglie Jimena nella Cattedrale di Burgos). Tizona, la spada dell’eroe spagnolo è invece tuttora conservata a Madrid nel museo dell’esercito. Rodrigo Diaz detto El Cid divenne oggetto di culto popolare fin subito dopo la sua morte. Attorno alla sua figura furono scritte varie opere letterarie: nel XII° secolo fu composto il poema “La canzone del Cid” (El Cantar de Mio Cid ) che rappresenta una delle prime opere della letteratura spagnola. Fu seguito da Cronica Particular del Cid, (del 1512), che raccontano sia dell’uomo, sia di Babieca, il cavallo bianco sulla cui groppa combatté per trent’anni.
Ideale destriero da battaglia, Babieca apparteneva alla razza oggi nota come andaluso. Anche se piuttosto massiccio, probabilmente non superava i 152 cm. Nel poema Carmen Campidoctoris, Babieca è descritto come il dono di “un barbaro” al Cid, facendo così nascere il sospetto che il nome derivi da “Barbieca”, o “cavallo del barbaro”. Babieca era assai reattivo, agile e coraggio. Non solo non temeva la battaglia, ma neppure i fantasmi. Quando El Cid mori’ a Valencia, durante l’assedio, si pensò che la notizia della sua morte avrebbe inferto un duro colpo al morale delle truppe e ridato coraggio al nemico; si tentò dunque di instillare almeno nel nemico la paura del cavaliere morto, così come l’aveva instillata da vivo. Il piano consisteva nel legare alla sella di Babieca il corpo di El Cid armato di tutto punto, con lo scudo in una mano e la spada nell’altra. A mezzanotte venne così fatto uscire dalla città, diretto verso il campo dei mori, l’esanime cavaliere alla testa dei suoi cavalieri tutti vestiti di bianco con bandiere sventolanti del medesimo colore. Fra tutto quel bianco, il già pallido viso di El Cid che si scorgeva attraverso la visiera aperta dell’elmo, appariva come risplendente di una “luce soprannaturale”. La sua apparizione spettrale sul cavallo bianchissimo, lanciato al piccolo galoppo davanti ai ranghi silenziosi, fece fuggire i mori gridando che El Cid era tornato dal regno dei morti. Gli spagnoli li inseguirono senza tregua conseguendo un’ennesima vittoria. Fu una perfetta strategia psicologica: due corpi tenuti in azione da un’anima soltanto: quella del cavallo. Fu così che Babieca divenne famoso più per aver cavalcato pochi minuti il suo cavaliere morto che per averlo cavalcato trent’anni da vivo. L’idea di far cavalcare a Babieca un cadavere era stata proprio di El Cid. Nel corso delle sue campagne, spesso il cavaliere ordinava che venissero letti libri di guerra di autori classici romani e greci sia per intrattenimento che per trarne ispirazione. Subito dopo la lettura, infatti, si procedeva con la discussione di nuove tattiche da sperimentare. Spesso le strategie adottate erano inattese, e miravano proprio a spaventare il nemico prima di attaccarlo. Anche l’ultima battaglia che El Cidn combatté passò alla storia come una sorta di guerra psicologica che raggiunse perfettamente lo scopo.
Anche per Babieca quella fu l’ultima battaglia: non venne più cavalcato da nessuno e morì due anni dopo, a quarant’anni. Senza di lui, El Cid sarebbe morto mille volte, invece il suo prode destriero lo riportava sempre indietro. Anche in quel 10 luglio del 1099 seppe districarsi nell’infuriare della battaglia e riuscì a riportarlo ferito e ormai incosciente, ripiegato sull’arcione, entro le mura di Valencia. La città era assediata e l’ultimo pensiero del cavaliere morente fu che la notizia della sua morte imminente avrebbe rincuorato i nemici che così avrebbero conquistato la citta. E sapeva bene che nessuno sarebbe sopravvissuto alla conquista del feroce avversario Yussuf ibn Tashfin che avrebbe passato gli abitanti per la spada, prima fra tutti Jimena, e distrutto la città. Mentre il suo cavallo lo conduceva dunque al sicuro, lontano dalla battaglia, El Cid studiava il suo ultimo intelligente piano di natura psicologica. Fu mentre era morente che inventò l’ultima trappola; ordinò che, una volta morto, lo si legasse alla sella del suo cavallo con la sua spada Tizona ben stretta nella mano: al resto avrebbe pensato Babieca. E fu proprio Bavieca, che alla testa delle armate del suo padrone, avanzò contro i nemici e lo guidò per l’ultima volta alla vittoria. Per merito di Babieca, quindi, Valencia su salva e i suoi abitanti pure.
“Non sono un eroe … Lo so, di me molto si è scritto, ma non sono mai stato il liberatore della Spagna … Ero soltanto un cavaliere che ha combattuto con fedeltà e coraggio, a fianco di chi ritenevo fosse dalla parte del giusto: arabi o cristiani non faceva molta differenza … A contare erano soltanto gli uomini … Se il mio nome è entrato nella leggenda il merito è soprattutto suo” dice El Cid in uno dei poemi mentre con la mano guantata sfiora lieve il collo di Babieca. “L’ho scelto in mezzo a tanti, in un giorno accecante di sole. Io ero poco più di un ragazzo. Lui un giovane puledro, goffo e intraprendente. Il mio padrino … mi aveva condotto a prendere quello che sarebbe dovuto diventare il mio compagno d’arme. Restò sorpreso della mia decisione e mi dette dello stupido – accenna un piccolo sorriso – e per questo lo chiamai Babieca. Non ero allora un cavaliere molto esperto, ma di una cosa ero sicuro: lo sguardo di quel cavallo rivelava una grande personalità. Coraggio, spirito di iniziativa, duttilità: le doti necessarie per un destriero in battaglia. Ed il tempo mi ha dato ragione. Senza di lui sarei morto mille volte. Mi ha sempre saputo riportare indietro. Anche quel 10 luglio del 1099 ha saputo districarsi dall’infuriare della battaglia e, piegato sull’arcione, ormai incosciente, mi ha ricondotto dentro le mura di Valencia. La città era assediata e la notizia della mia morte imminente aveva rincuorato i nemici. Yusuf ibn Tashfin non era un avversario come gli altri. Violento, infido, spietato avrebbe messo la città a ferro e fuoco.Nessuno degli abitanti sarebbe sopravvissuto alla conquista. Fu così che inventai l’ultima trappola. Ordinai che morto mi si legasse alla sella, la mia spada Tizona (potete vederla ancora, conservata nel museo dell’esercito di Madrid) ben stretta nella mano. Al resto avrebbe pensato Babieca. Fu lui che alla testa delle mie armate avanzò contro i nemici, fu lui che dopo la vittoria, per l’ultima volta guidò il mio ritorno. A lui, e soltanto a lui, si deve la salvezza di Valencia.” Tace. Guardo il cavallo: lo scuote un fremito sottile. Ma non avevi paura, mi viene da chiedergli “E di che cosa? A quei tempi colpire un cavallo durante il combattimento equivaleva al reato di fellonia. Provavo angoscia, come sempre. Durante la battaglia la percezione del dolore degli uomini ti si appiccica addosso. Quel giorno in più c’era la sofferenza di un distacco, la sensazione di essere rimasto solo, ma ho fatto quello che si doveva fare” Gira la testa verso il suo cavaliere: “Glielo dovevo” “Perché? Può la meraviglia disegnarsi sul muso di un cavallo? “Perché in un giorno lontano aveva saputo leggere nel mio sguardo che lo stavo aspettando e mi aveva scelto!” Come il suo padrone, anche il cavallo ispirò parecchie leggende.
Ormai mi sono vicini. Ma non mette piede a terra Rodrigo Diaz de Vivar, si limita solo ad alzare la visiera. “Non sono un eroe, almeno nel senso in cui lo intendete voi moderni “ dice l’eroe stesso in un poema. “Lo so, di me molto si è scritto, ma non sono mai stato il liberatore della Spagna dai mori come racconta il Cantar del mio Cid. Ero soltanto un cavaliere, che ha combattuto con fedeltà e coraggio, a fianco di chi ritenevo fosse dalla parte del giusto: arabi o cristiani non faceva molta differenza … A contare erano soltanto gli uomini, per questo forse ho conquistato la stima di molti. Ma se il mio nome è entrato nella leggenda il merito è soprattutto suo”. La mano guantata sfiora lieve il collo di Babieca, il suo cavallo.
“L’ho scelto in mezzo a tanti, in un giorno accecante di sole. Io ero poco più di un ragazzo. Lui un giovane puledro, goffo e intraprendente. Il mio padrino, un monaco certosino (in molte abbazie a quei tempi si allevavano cavalli: i migliori di Spagna) mi aveva condotto a prendere quello che sarebbe dovuto diventare il mio compagno d’arme. Restò sorpreso della mia decisione e mi dette dello stupido – accenna un piccolo sorriso – e per questo lo chiamai Babieca. Non ero allora un cavaliere molto esperto, ma di una cosa ero sicuro: lo sguardo di quel cavallo rivelava una grande personalità. Coraggio, spirito di iniziativa, duttilità: le doti necessarie per un destriero in battaglia. Ed il tempo mi ha dato ragione. Senza di lui sarei morto mille volte. Mi ha sempre saputo riportare indietro. Anche quel 10 luglio del 1099 ha saputo districarsi dall’infuriare della battaglia e, piegato sull’arcione, ormai incosciente, mi ha ricondotto dentro le mura di Valencia. La città era assediata e la notizia della mia morte imminente aveva rincuorato i nemici.Yusuf ibn Tashfin non era un avversario come gli altri. Violento, infido, spietato avrebbe messo la città a ferro e fuoco.Nessuno degli abitanti sarebbe sopravvissuto alla conquista. Fu così che inventai l’ultima trappola. Ordinai che morto mi si legasse alla sella, la mia spada Tizona (potete vederla ancora, conservata nel museo dell’esercito di Madrid) ben stretta nella mano. Al resto avrebbe pensato Babieca. Fu lui che alla testa delle mie armate avanzò contro i nemici, fu lui che dopo la vittoria, per l’ultima volta guidò il mio ritorno. A lui, e soltanto a lui, si deve la salvezza di Valencia.” Tace. Guardo il cavallo: lo scuote un fremito sottile.
Di Michela Pugliese
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