Cani, gatti e pappagalli.

Zampe di velluto

Della mia infanzia in campagna non dimentico l’allegria e l’amore che solo gli animali sanno dare.

Il primo animale che ricordo bene era Mao, un gatto siamese bellissimo.lo avevo pochi anni e pretendevo di giocare con lui come con la bambola. Doveva farmi le carezze sulle guance mentre io gli tenevo le zampe con le mani. Il risultato era che avevo sempre la faccia graffiata, nonostante papà mi pregasse di non farlo mai, perché il gatto avrebbe potuto ferirmi gli occhi. Mao era bello e come molti gatti siamesi, non si abbandonava mai a smancerie con nessuno di noi. Ma ricordo però che si sedeva sul tavolo quando papà compilava le sue relazioni, e lo guardava come una piccola sfinge senza manifestare emozioni di sorta. Papà era quasi imbarazzato, Era, ahimè, un gatto ladro, cosa che faceva impazzire la mamma, e quando andava in amore, non corrisposto data là mancanza di gatte, saltava sulle tende e sulla domestica di turno, terrorizzando a morte tutti. Poi fu la volta di Cip, che era il cagnolino del reggimento di papà: un grazioso bastardino, giovane e vivacissimo . Papà lo portava a casa durante i permessi, certo di fare cosa gradita agli altri cuccioli di casa. Cip si comportava da vero leader con noi, mordeva tutto quello che trovava, faceva la pipì dappertutto, problema comune a molti cuccioli anche umani, e correva a perdifiato per casa, travolgendo tutti con la sua allegria. Mangiava i succulenti pranzetti che il babbo gli preparava, nonostante la mamma dicesse che «non era un cristiano» e che «c’era la guerra».

Non so che fine fece. In quel tempo avevamo anche un canarino, che ben presto si abituò a svolazzare-per casa liberamente. Gli legavamo alle zampette dei piccoli pesi della bilancia (il suo record personale fu venti grammi) e volava sopra i tubi della cucina economica per avere più caldo . Faceva anche una specie di danza, alzando le zampe ritmicamente, se il caldo era eccessivo, ma non lasciava la sua postazione preferita. Una volta volò fuori dalla finestra e noi eravamo sicuri che non l’avremmo visto più, perché era inverno e c’era la neve. Invece, durante la notte, mamma sentì dei rumori strani alla finestra: il piccolo masochista voleva rientrare e mamma gli aprì il canarino fu il primo, mi pare, di una serie inesauribile di fringuelli, verdoni, montani e uccellini vari: mio fratello maggiore, che li amava sopra ogni cosa, chiedeva con grande insistenza a mamma e a papà, e otteneva, di portare in casa pennuti non proprio da esposizione, che avevano il pregio di costare poco e di cantare pochissimo. Poi arrivarono i porcellini d’India, conigli, uno strano scoiattolo senza coda, che quando cadde in letargo si rivelò essere un ghiro. Il fratello maggiore seguiva attentamente anche gli animali del contadino, l’asino Lindo e la mucca Bella. Con il ritorno di papà venne anche Dick,un volpino bianco e beige, piccolo e risentito. Con noi era molto affettuoso ci si lasciava fare ogni cosa: gli mettevamo i vestiti e la cuffietta dell’ultimo nato e lui girava per casa così acconciato, senza alcun problema. Quando lasciammo quel paese meraviglioso del Varesotto , ci trasferimmo a Como.

Franco Anselmi
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Dopo i primi momenti di assestamento, che non furono facili perché dopo la libertà assoluta della campagna ridiventare cittadini non era una cosa semplice, ricominciammo ad avere altri animali. Papà pensò di rallegrarci il cuore e ci portò a casa un batuffolo nero che venne chiamato Marantega. Era una gattina vivace e giudiziosa, si affiatò subito con noi tutti e’ si comportava come la figlia più piccola. Cresceva in perfetta simbiosi con i miei fratelli minori, di cui aspettava il ritorno da scuola per scatenarsi in corse frenetiche: saltava sui mobili con le orecchie all’indietro e gli occhi intelligenti le brillavano di una gioia incontenibile. Babbo le preparava sempre pranzetti accurati e lei, dopo averli gustati, andava a dormire nei letti dei miei fratelli, da dove veniva recuperata per la nanna serale. Anche la ricerca della gatta non era una cosa semplice: si imbucava nei letti, ma non sopra le coperte, bensì sotto, praticamente ai piedi dei ragazzi. Quando veniva l’ora di metterla a letto, la cercavo nei loro letti, e lei non fiatava finché trovavo i suoi occhi fosforescenti che mi dicevano che il gioco era finito e che era il momento di dormire. Da sola scendeva e da sola tornava nella sua cesta. Fino alla mattina successiva,quando cominciava a tendere agguati al papà che era il primo ad alzarsi ed aveva l’abitudine di lasciar penzolare le bretelle dei pantaloni. Dai nostri letti sentivamo le urla di dolore di babbo quando la micia affondava i dentini nelle sue scarne caviglie. Atto finale di gioiosi e lunghissimi appostamenti. Marantega crebbe e divenne una vispa gatta dal pelo lustro e dagli occhi verdi. La prima volta che si innamorò, si lamentava così forte che ero molto preoccupata per lei: i suoi versi esprimevano una sofferenza tale, che mi facevano pensare a una malattia, piuttosto che a un desiderio di accoppiamento. Attirati dai suoi richiami, i maschi del circondario arrivavano a frotte e si accampavano sui gradini delle scale. Alla fine, con un certo timore,le aprimmo la porta di casa, e lei passò in mezzo a quei maschi assatanati come una vera signora. Purtroppo rimase subito incinta, incinta e ancora incinta. Ogni quattro mesi, mi pare, partoriva gattini tigrati, quattro o cinque per volta. Seguivamo la gravidanza con molto interesse, misurandole la pancia con il centimetro, e facevamo previsioni sul numero dei nascituri. Le contrazioni del primo parto avvennero sul mio letto e, se non fossi in stato di preallarme, avrebbe partorito proprio lì. La presi e la portai di corsa nella sua cesta e rimasi con lei fino alla nascita del primo figlio. Dopodiché non ebbe bisogno più di nessuno: guardava i suoi piccolini ed era una madre affettuosissima. Quando lasciammo Como e ci trasferimmo a Milano, molti di questi animali vennero regalati ad amici. Marantega si trasferì nella casa di campagna di Bruno, un amico di Gianni, mio fratello maggiore, e continuò a ripopolare la campagna comasca di gattini forse non più tigrati. I pappagallini ritornarono dall’amico che ce li aveva regalati, i pesci non vennero più pescati, i piccioni rimasero sul retro di casa e vennero adottati dai vicini.  Nella casa di Milano non c’era posto per i nostri piccoli amici, e la nostra vita cambiò. Anzi a pensarci bene, l’addio a Como e agli animali, fu un addio all’infanzia. Mai più godemmo di così grande liberà e del contatto e dell’amicizia di così tante bestiole, ognuna con la sua personalità e intelligenza. Ricordo ancora l’allegria che ci accompagnava sempre, nonostante le avversità che non furono poche, e la dolcezza del lago che era lo sfondo naturale della nostra vita. Ricordo una famiglia piena di allegria che con gli animali, aveva trovato più calore e più amore. Se penso a quel tempo felice, mi rendo conto che il Paradiso Terrestre era proprio quello.

MARIAPIA BOSELLI (Libero)

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