Milano: bande violente, il loro obiettivo sono gli smartphone

Milano

Milano 16 Gennaio – Commettono furti e rapine ai danni dei coetanei, anche molto violenti, per comprare abiti griffati e cellulari di ultima generazione. Vengono dalle periferie e dalle case popolari e sono soprattutto composti da stranieri, i più violenti gruppi di giovani milanesi. Ma «il fenomeno delle baby gang, almeno nel capoluogo lombardo, si è decisamente ridotto rispetto al passato», spiega don Gino Rigoldi, il cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria, che da quarantacinque anni si occupa di loro.

A Milano non c’è una situazione di allarme sociale, sottolineano dall’ufficio stampa della questura. Non si registra la presenza di bande di ragazzi che controllano interi quartieri ma, di tanto in tanto, non mancano episodi preoccupanti. Come il 27 dicembre scorso, quando un gruppo di giovanissimi ha tentato di rapinare un negozio nel mezzanino della fermata Lambrate della metropolitana, aggredendo fisicamente il proprietario. O a fine novembre, quando la polizia ha fermato una banda di ragazzini che, armati di coltelli, derubavano i coetanei seminando il panico nei parchi, in zona Monforte-Vittoria.

A finire al Beccaria sono 17, 18enni. Qualche volta entrano a far parte delle gang anche ragazzini di 14 anni particolarmente svegli e violenti, che vengono da famiglie povere, mossi dalla noia o da un forte sentimento di prevaricazione sociale. «Non sono molti. Si tratta di gruppi di quartiere o addirittura di strada, formati da adolescenti che arrivano in carcere in genere dopo aver fatto una rapina, spesso usando una violenza inaudita: per portare via un cellulare massacrano di botte il coetaneo», racconta don Rigoldi. «In casi del genere, il semplice monitoraggio della polizia non basta. Certo che vanno fermati anche col carcere, ma bisogna occuparsi di questi ragazzi, aiutarli a parlare e ad aprirsi, impiegare gli educatori, come abbiamo fatto con i latin king: è stato un lavoro duro, ma qualcuno di loro siamo riusciti a recuperarlo».

Monica Serra (La Stampa)

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