I tanto decantati (da Renzi) big del Web, Google e Apple scucivano alle Entrate molto meno di quanto dovevano. In cambio, annunciavano piani di assunzioni che si sono rivelati farlocchi.
Milano 19 Marzo – Nel dicembre del 2017, dallo studio di Corrado Formigli, Matteo Renzi sbraitava: «Non voglio avere paura dell’innovazione! Non voglio essere neoluddista!». Poco prima, l’allora segretario del Pd si era vantato delle sue conquiste: «Ho convinto Jeff Bezos a portare a Torino il centro di ricerca di Amazon sull’intelligenza artificiale. Ho convinto Tim Cook a portare alla Federico II di Napoli un luogo di sperimentazione di Apple». In poche frasi, Renzi ha sintetizzato la sua ideologia, quella che gli studiosi francesi Pierre André Taguieff e Thibault Isabel chiamano «bougisme», ovvero «il culto del movimento fine a sé stesso. In mancanza di una causa per cui battersi si celebra la novità».
Di questa celebrazione acefala dell’innovazione la sinistra di governo, in questi anni, ha fatto una bandiera. Flash dopo flash, sorriso artefatto dopo sorriso artefatto, abbiamo visto Renzi stringere voluttuosamente le mani di Tim Cook (gennaio 2016), Bill Gates (nel giugno del 2016), Jeff Bezos (luglio 2016). Lo abbiamo sentito dire, alla vigilia di un pellegrinaggio nella Silicon Valley, «vado a imparare da chi è più bravo». Nella visione renziana, Bezos è nientemeno che «un genio», i colossi del digitale sono esempi da seguire, le grandi multinazionali creano posti di lavoro, producono ricchezza e fanno salire il Pil. C’è solo un piccolo problema. Il culto dell’innovazione professato dai progressisti italici è basato sul modello più vecchio del mondo: bastonate per i più deboli e coccole per i potenti.
Intanto che Renzi spiegava in tv quando Goole fosse meravigliosa, l’azienda di Mountain View decideva di pagare al fisco italiano 306 milioni di euro a fronte di una iniziale richiesta di circa 800 milioni. Mentre Matteo baciava la pantofola di Tim Cook, Apple si accordava con l’Agenzia delle entrate per pagare 318 milioni di euro, a fronte di una richiesta iniziale di 88o milioni per l’Ires non pagata. In compenso, dei famosi «600 posti di lavoro» che la mela digitale avrebbe dovuto creare a Napoli non ne abbiamo visto manco mezzo.
Amazon ha fatto un pochino meglio, almeno dal punto di vista dell’immagine pubblica: nel dicembre del 2017 ha annunciato che avrebbe pagato all’Agenzia delle Entrate oltre 100 milioni di euro. Cioè la somma che la Procura di Milano pretendeva dalla compagnia per omessa dichiarazione di redditi. L’hanno persino fatta passare come un favore fatto ai poveri italiani: guardate come siamo bravi, vi paghiamo persino le tasse. Nel frattempo, il solito Renzi aveva nominato Diego Piacentini, ex manager di Amazon, commissario straordinario per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione. A Milano, invece, la giunta del Pd guidata da Beppe Sala sceglieva Roberta Cocco, proveniente da Microsoft, come assessore alla Trasformazione digitale.
Che meraviglia, l’innovazione. Soprattutto quando si scopre che le grandi multinazionali, grazie al tax ruling, hanno beneficiato di un trattamento fiscale di favore. Tra i 78 accordi stipulati dalle mega aziende con le istituzioni italiane – patti da cui è derivato uno sconto di almeno 10 miliardi di euro a beneficio delle compagnie – ci sono pure quelli siglati da Microsoft. Chissà, forse è per questo che Bill Gates, durante la sua visita a Roma, ha voluto «ringraziare gli italiani per la loro gentilezza e generosità nel ridurre l’ineguaglianza della salute a livello globale». Beh, di sicuro alla salute di uno degli uomini più ricchi del mondo abbiamo portato qualche beneficio. E pure al suo portafogli.
Oh, certo, Microsoft non è la sola ad essersi avvalsa del tax ruling. I nomi di chi firma gli accordi restano segreti (ed è uno scandalo), ma l’Espresso, qualche tempo fa, ha scoperto che ad averli stipulati sono state anche Philip Morris e Michelin. Chissà se Renzi lo sapeva nel 2016, quando da presidente del Consiglio si presentò a Valsamoggia, in provincia di Bologna, per inaugurare il nuovo stabilimento della Philip Morris.
Verissimo, Renzi è anche tra quelli che hanno spinto per la Web tax, promettendo di far pagare più tasse ai colossi transnazionali, aziende digitali in testa. Peccato che, anche qui, ci siamo fatti gabbare. Perché anche l’Unione europea ha orchestrato un analogo provvedimento. Solo che la Web tax europea va a beneficio dell’istituzione Ue, non dei singoli Paesi. I denari raccolti andranno ad aumentare le «risorse proprie» dell’Unione, che poi deciderà eventualmente di distribuire fondi ai Paesi membri. Dunque rischiamo che, nel momento in cui il balzello comunitario entrerà in vigore, la nostra tassa divenga di fatto inutile.
Comunque vada a finire quella partita fiscale, tuttavia, di male i nostri governanti ce ne hanno già fatto anche troppo. Non solo Renzi, ovviamente: anche Mario Monti, Enrico Letta, Paolo Gentiloni. Per anni ci hanno ripetuto che bisognava tagliare, che serviva usare le forbici perché troppo a lungo abbiamo vissuto »al di sopra delle nostre possibilità». Le tasse per le piccole e medie imprese crescevano trasformandosi in un cappio. La famigerata «innovazione» ci ha costretto ad importare la «gig economy», l’economia dei lavoretti che produce impieghi precari e sottopagati.
Da un lato, dunque, il nostro tessuto produttivo veniva annientato. Dall’altro, il nostro Paese concedeva sconti alle multinazionali, cioè le stesse aziende che, a livello globale, hanno imposto un sistema basato sullo strangolamento degli Stati nazionali. Per loro, l’Italia è un paradiso fiscale. Per tutti altri, si sta trasformando in un inferno. E quando qualcuno alza la mano per dire che fa caldo, gli rispondono che non si può nemmeno accendere l’aria condizionata: è al di sopra delle nostre possibilità.
Francesco Borgonovo (La Verità)
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