Tutti hanno conosciuto o molto giovani oppure per nulla la prima Repubblica
Milano 10 Maggio – La situazione politica di un Paese cambia anche perché cambiano gli uomini che ne sono protagonisti, perché cambia il loro modo d’essere, cambiano le loro biografie. E così pure in Italia, dove le personalità di Salvini, Renzi e Di Maio segnano uno stacco deciso rispetto al passato, mostrando biograficamente e antropologicamente significativi tratti comuni. Tanto per cominciare, tutti e tre sono giunti sulla scena dopo il 2013, nel momento cioè della crisi sia del berlusconismo, colpito al cuore dalla crisi dei conti pubblici del 2011, sia del Pd «storico» (per intenderci quello di Bersani e Co con le sue lontane radici «comuniste»), paralizzato dalla «non vittoria» alle elezioni politiche di quell’anno. E proprio perché quelle due crisi contemporanee segnavano in qualche modo la fine di una ventennale fase politica, ai tre sarebbe spettato e spetta tuttora, diciamo così, di fondare la fase successiva, chiamiamola pure quella della terza Repubblica.
Se e come in questi giorni e in queste ore essi stiano riuscendo nell’impresa lo lascio giudicare ai lettori. Qui vorrei soffermarmi piuttosto sulle loro caratteristiche personali, che possono forse dirci qualcosa su quella che già oggi è la vita pubblica e politica del nostro Paese e quella che presumibilmente ancora di più sarà domani.
Dunque Salvini, Renzi e Di Maio. Tra i 32 anni dell’ultimo e i 46 anni del primo, tutti e tre hanno conosciuto o molto giovani o per nulla la prima Repubblica, che pure costituisce tuttora il termine di confronto obbligato, polemico o nostalgico non importa, di moltissime riflessioni sulla democrazia italiana. Ma per essi invece è solo un sentito dire. Figli del vasto ceto medio nazionale, sono ognuno a suo modo frutto del nuovo, sconquassato , sistema scolastico italiano varato dopo gli anni 7o: che non a caso è riuscito a convincere di finire gli studi al solo Renzi , unico dei tre, infatti, ad essersi laureato. Ciò che più colpisce della loro biografia successiva è una triade di elementi comuni: innanzi tutto nessuno dei tre si è mai impegnato in una qualche attività precisa e in modo continuativo ( tutti e tre hanno fatto una serie di finti lavori o lavoretti più o meno temporanei ). Nella vita di tutti e tre, infatti, si può dire fin dall’adolescenza, — ed è il secondo elemento in comune — ha cominciato ad avere una parte ragguardevole, sempre più ragguardevole, la politica. La triade ha avuto esperienza, in sostanza, solo della politica e del suo universo. Condividono infine una terza singolare caratteristica: l’incontro con il mondo dell’intrattenimento televisivo e dello spettacolo. Salvini e Renzi partecipano in qualità di giovani ospiti-concorrenti a trasmissioni televisive di larga audience, mentre Di Maio entra in contatto con il mondo magico della «rete» e con un grande affabulatore della scena come Grillo. Di sicuro un segno dei tempi.
C’è ancora una caratteristica in comune tra tre leader. Nella loro vita di tutti i giorni né Renzi, né Salvini né Di Maio, fatto salvo il tifo per una squadra di calcio, hanno mai prestato attenzione a qualsiasi altra cosa che non fosse la politica o ciò che la riguarda. Nessuno di loro ha un hobby o un interesse particolare. A quello che è dato di sapere e di vedere nulla di ciò che si fa e si agita nel mondo dei libri, degli studi, dell’ arte, della scienza, della musica, ad esempio, ha mai riscosso un minimo, reale (insisto: reale) interesse da parte loro.
I frutti di tali itinerari biografici li abbiamo sotto gli occhi. Il primo è che per i nostri tre leader — e dunque per l’intero mondo politico, visto che essi ne rappresentano più dei due terzi — le forme del comunicare sembrano di gran lunga più importanti dei contenuti. Evidentemente, assistere da vicino alla perfomance di uno showman come Mike Bongiorno, mettere piede nel fascinoso mondo della tv o avere a che fare tutti i giorni con i «like» e i «vaffa» , sono cose che lasciano il segno; e alla lunga anche qualche annetto de «la Lega ce l’ha duro» di bossiana memoria ha il suo effetto. Si tratta di una scuola che, aggiungendosi all’aria dei tempi, invita irresistibilmente a comunicare soprattutto attraverso la frase ad effetto non più lunga di due righe, attraverso lo slogan incisivo, la battuta. La quale genera fiducia assai più nel potere della parola e dell’apparire, nel potere dell’immagine — nel richiamo della felpa o della camicia bianca, o della cravatta ostentata come simbolo supremo di affidabilità — che non in quello del pensiero. E naturalmente induce a credere che alla fin fine i discorsi siano un’ inutile perdita di tempo. E infatti: chi ricorda di aver mai sentito Salvini, Renzi o Di Maio fare un vero discorso, magari condito con quella dose di alta retorica che ascoltiamo qualche volta da certi politici stranieri? Chi li ha mai sentiti sviluppare un argomento qualunque servendosi, diciamo, di almeno una decina di periodi? Il loro parlare non è un ragionare, più che altro è sempre un seguito di affermazioni perentorie: in genere di promesse o di minacce. Con la ovvia conseguenza che dalle loro parole non riesce mai a prender forma qualcosa che assomigli ad un’analisi appena complessa delle necessità del Paese, ad una visione del suo futuro.
C’è in tutto questo un ovvio portato dei tempi, l’ho già detto: ma dei tempi interpretati all’ italiana e in perfetta sintonia con il modo d’essere delle nuove leadership. Solo in Italia, ad esempio, tra i maggiori Paesi del continente, la comunicazione politica e la discussione pubblica che si svolgono in tv hanno come regola interventi non più lunghi di 45 secondi in uno studio con anche cinque o sei persone che parlano contemporaneamente tra gli incongrui battimani di un pubblico che applaude qualsiasi cosa. Così, a ruota della seconda, dovrebbe nascere in Italia la terza Repubblica: segnando ad opera dei tre homilies novi, della loro presenza congiunta, una frattura completa con la prima. Una frattura che non è il distacco solo da quel passato, ciò che avrebbe un senso, ma appare quasi il distacco da ogni passato.
Ernesto Galli Della Loggia (Corriere)
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