ROMA, CILE

Attualità Cultura e spettacolo


L’ultimo suo film del 2015 aveva raccontato la morte della madre. I precedenti quelli della moglie, del figlio, della Chiesa, del Partito, fino all’Autobiografia dell’uomo mascherato dell’anno scorso, inerente il suo stesso decesso che, come egli stesso ha raccontato, poi non c’è stato

La fine dell’elenco dei personaggi mortuari e, da più di dieci anni, dell’ispirazione dell’odio per i nemici politici ha tolto spunti e soggetti a Nanni Moretti. Moretti ha fatto sempre e solo un cinema che se ne sta sulle sue, che vive di ed in una nicchia tutta propria, sempre e solo legata ad un limitato e circoscritto milieu. Si è fatto voce, un po’ algida e poco enpatica, del progressismo del Partito romano, quando la Capitale era centro indispensabile della politica e della cultura a quella legata. Non c’è un tema dominante della storia recente -terrorismo, ripresa, ambientalismo, giustizialismo, mondializzazione, precariato, indignazione, crisi finanziaria, globalizzazione, sovranismo- che sia entrato vivo, e non lontanamente ovattato, nella sua cinematografia, i cui protagonisti mettono al centro le proprie nevrosi originate dalle mancate vittorie e dall’odio per i nemici, letteralmente crocifissi.

Moretti ha sempre fatto un cinema ambientato nella contemporaneità con scopi interpretativi politicosociali attraverso l’esempio di microcosmi personali. Il suo pubblico, col tempo sempre più alto borghese, ha seguito pedissequamente comportamenti e ambienti della sua fiction; la cui descrizione della realtà si è fatta sempre più abulica, stanca, rinunciataria man mano che la teoria non è più riuscita a spiegare la società, proprio come sempre meno si comprende l’origine dello status sociale dei fan morettiani, forse rentier, non produttori di un’Urbe sempre meno centrale, meno importante, meno ricca.

Per la stanca felicità di questo pubblico Moretti presenta ora un documentario, che mette insieme un viaggio recente in Cile, interviste a protagonisti locali del tempo con materiali d’epoca, raccontando una storia famosa agli anziani di oggi, fatta per far loro spalancare gli occhi al ricordo di quando erano giovani, quell’ 11 settembre ’73, all’epoca del golpe del generale Pinochet che spodestò il governo di Salvador Allende, al potere dal ’70. Santiago, Italia doveva trattare le beltà dell’accoglienza politica; in corso d’opera però i trionfi di Salvini lo hanno indirizzato sull’evocazione della minaccia di regime, di golpismo antidemocratico, se non di golpe già avvenuto. Oggi viaggio per l’Italia e vedo che l’Italia assomiglia sempre di più al Cile, nelle cose peggiori del Cile.

Nel documentario è centrale l’opera dell’ambasciata italiana della capitale cilena Santiago con il suo carico di centinaia di rifugiati in fuga dalla polizia segreta Dina. Senza indicazioni precise dal ministro degli esteri Moro che non aveva riconosciuto il governo golpista, l’ambasciatore Tomaso de Vergottini ed il diplomatico Barbarani, considerati dalla junta in transito, diedero asilo, nel caos più totale, a oppositori politici, criminali comuni, golpisti in disgrazia e poi trattarono, anche pagando, per il loro esilio in Italia tra vittime e carnefici, eroi, politici cinici, madri di desaparecidos, aguzzini, spie, doppiogiochisti, funzionari, delinquenti, agenti e preti come si racconta in Chi ha ucciso Lumi Videla? (Mursia, 2012). Era un’epoca in cui la guerra fredda si combatteva anche a suon di liberazione di dissidenti sovietici e di socialisti perseguitati, che poi venivano portati in trionfo. Il nome Allende è rimasto ben noto, dalla figlia, Isabel Llona, nota scrittrice e della nipote, Isabel, presidente del Senato.

Quel ’73 però era evidente il Male, già ricordato dal film Missing di Costa Gravas, impersonato dagli Usa perdenti in Vietnam, dagli scioperi cileni dei camionisti e delle casseruole delle massaie, ridotti allo stato attuale del Venezuela, da Kissinger, dalla Cia, infine dai rayban di Pinochet. Nella guerra fredda Mosca era all’attacco in Medio Oriente, in Africa ed in Asia; e pregustava la presa del paese più produttivo del Sudamerica, quel Cile, unico paese dopo l’Italia ad avere i carabinieros ed i cui soldati portano un elmetto simile a quello nazista.

Gran parte dell’opinione pubblica cilena, più che indifferente alle violazioni dei diritti umani, addirittura in euforia per lo scampato pericolo da una rivoluzione rossa, e l’Occidente furono lieti della fine dell’esperimento del governo Allende, che non era comunista, come erroneamente è stato scritto e che era in pieno tracollo economico, come raramente viene ricordato. Invece l’Italia della Dc, Psi e Pci, che in diversi modi, interpretavano i diversi riferimenti e finanziamenti di Washington e Mosca, visse in modo del tutto particolare quel ’73 cileno. E rese eroi del Bene e del El pueblo unido jamás será vencido – Allende, Unidad Popolar, Castro de Cuba, i socialisti di Altamirano, i desaparecidos dello stadio e del deserto, il gruppo Inti-Illimani, per caso al tempo in Italia e poi per 20 anni ospiti fissi alle feste dell’Unità.

Furono soprattutto Berlinguer e Pci a estrarre da quel ‘73 un miracolo politico. In primo luogo rimiserono al posto di vittime, quei comunisti che dovunque avevano realizzato dittature stragiste. In secondo, evocarono dal nulla la minaccia del golpe dell’esercito e della polizia, storicamente nulla in Italia, ed ancor più flebile sotto i tremebondi democristiani. Infine ascrissero ai Dc ogni responsabilità, ogni guaio dell’incipiente guerra civile, trasformando il terrorismo in maggioranza epilessie proprio dei pezzi di sinistra del paese, in una strategia della tensione filoUsa. Non c’erano somiglianze tra Cile ed Italia nel ’73, anzi. Eppure l’interpretazione berlingueriana, nell’indignazione romantica raccordata alla Resistenza, altra storia romanzata, divenne una vulgata dominante che faceva paradossalmente vergognare ogni democristiano ad ogni omicidio o gambizzazione rossi; almeno fino all’assassinio di Moro, che pure si volle far accostare alla vittima Allende quando tra le rispettive vicende non c’erano punti in comune.

Ora Moretti riporta ai suoi anziani fan quel ricordo proprio come venne raccontato e mitizzato, senza tema che la favola bella che ieri li illuse possa ancora venire narrata senza tema di obiezioni e sarcasmo. Rincoglionito come certi vecchi, Nanni vede incrociarsi l’insieme degli orrori della repressione e del minacciato putsch, lo trova anche nelle compere natalizie (questa società di consumismo terribile, dove la persona che hai al fianco non te ne frega niente), che pure sono in calo. Individualista fino al midollo, si lamenta per l’individualismo degli altri. L’incubo in realtà è la Roma, Cile di oggi dove decade il mondo suo e dei suoi fan, senza che né lui, né i fan abbiano occhi e orecchie per questo, non volendo non interpretare ma neanche pensarci.

Meglio rifugiarsi nelle vecchie favole che tante belle serate al focolare, a via della nocetta, attaccata a villa Dora Phampili, nel quartiere Gianicolense detto Monteverde, fecero passare al suono della noia mortale dei Finti-illimani, come diceva Lucio Dalla

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