Sono attualmente in corso le elezioni che preparano il XXVIII Congresso della Federazione Nazionale della Stampa con 312 delegati che si terrà a Levico Terme, vicino Trento nel prossimo febbraio. La Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) union dei giornalisti capitanato dal 2015 da Giuseppe Giulietti, già alla testa delle firme Rai (Usigrai), è un ben strano sindacato. Fondato nel 1877 e nobilmente guidato dal letterato e ministro De Sanctis, all’inizio raggruppava bilateralmente sia giornalisti che editori; e sarebbe la più antica categoria sindacale, se non fosse stata battuta per soli tre anni dall’Associazione Nazionale dei Medici Condotti.
Strano perché unitario nel mare delle unions divise per ispirazioni politiche, categorie, territori; e qui l’unità non significa composizione delle diverse istanze. Infatti gli ultimi presidenti, Della Volpe e Giulietti sono stati trovati tra i giornalisti Rai, e tra di loro nella fazione più dura, quella della testata Rai3 ed Articolo 21, una delle organizzazioni massime del pensiero estremista giustizialista di sinistra. Cui corrisponde anche la presidenza dell’Ordine della Stampa, assegnata ad un altro dell’Usigrai, Verna. Quaterna con il segretario Fnsi Lorusso da Repubblica. Anche la doppia esistenza di organizzazione sindacale (Fnsi) ed Ordine corporativo, fissato nel contratto giornalistico del ’25, è una stranezza. Due doppioni, uno legato ai contratti e non contratti più diversi, con cassa pensionistica e salute integrativa autogestite e divise per razze; il secondo alla tenuta di liste degli unici detentori, in teoria, del monopolio dell’espressione, scritta e radiotelevisiva, cosa smentita dovunque nei fatti. Doppioni che rappresentano, più che lavoratori contrattualizzati, una nuvola di operatori di paracultura distribuiti tra condizioni diversissime, addirittura contrastanti.
Strano perché a capo di un oceano di 112mila giornalisti (di cui solo ca. 50mila operativi) siede l’esigua parte più garantita, trattata contrattualmente con i crismi del pubblico impiego, quella dei 1760 della Rai, affiancati dall’altra stranezza dei 40mila degli uffici stampa interni al pubblico impiego (Urp e Us) ex legge 150/2000, che poi sono chiamati, ai tavoli sindacali e paratali, ad occuparsi dei free lance, lavoratori spesso a partita Iva e dei giornalisti privati, del mondo cioè in cui ogni lustro i maggiori gruppi editoriali della Fieg rischiano di perdere due miliardi di fatturato (il 30%), un milione di copie dei quotidiani e 5mila lavoratori. In un mondo in cui destra, sinistra, populisti hanno provveduto allo smantellamento del finanziamento pubblico e al dimagrimento delle redazioni.
L’effetto sulla griglia dei redditi è impietoso. Il 6% dei 17.486 giornalisti dipendenti guadagna l’anno più di 130mila euro lordi, il 25% più di 80mila, il 50% meno di 30mila euro; in compenso l’83% degli 33.188 autonomi, dei free lance e delle partite Iva sta intorno ai 10mila euro, 5 volte meno dei colleghi sistemati. Il restante 10% degli autonomi è il regno degli ex dipendenti divenuti più che giornalisti, ormai imprenditori di se stessi, registi, attori, coordinatori, copywriter e proprietari di format Tv, vere stelle dello show, grandifirme. In fondo alla piramide dormono 24mila giornalisti a reddito zero. Si può essere giornalisti attivi anche solo contribuendo all’Inpgi (Istituto nazionale previdenza giornalisti italiani) il che spiega la dormienza. Anche l’ Inpgi è strano; è come una Inps (ente previdenziale, impositore, esattore, integrato nel sistema pensionistico obbligatorio italiano, gestore di assicurazioni) ma privata. La contribuzione distingue tra la bianca INPGI e quella pura della negra INPGI2, destinata solo agli scarni versamenti degli autonomi. Le pensioni segnano ancora più pesantemente lo schema suesposto; il 42% delle pensioni che i giornalisti assegnano a loro stessi, si colloca tra 70mila e 150mila euro lordi annui; la media ritira 57mila euro praticamente come se stesse al lavoro; solo il 28% ha una pensione da 35mila euro. Forti della loro cassa privatizzata e della loro autonomia normativa, i giornalisti, mentre fustigavano la pensione di tutti gli altri ed auguravano Buona Fornero a tutti, hanno introdotto solo nel 2017 il calcolo contributivo, già valido per gli altri da metà anni ’90. Così la terza fetta più grossa della torta pensionistica, dopo notai e professori universitari, è la loro.
Strano, ancora, per i pubblicisti, presenti nell’abbraccio di Fnsi e Ordine, che dovrebbero essere delectants, penne a tempo perso, e che invece spesso lavorano e partecipano più delle Casse di molti professionisti disoccupati. La loro presenza, qualche anno fa messa in forse dalla politica, testimonia di una mentalità antica; dell’idea, già applicata al mondo universitario e museale, di svincolare la cultura, e quindi anche i giornali, dal mercato, riparandola dai rovesci delle preferenze del pubblico dei consumatori. I pubblicisti sono anche esperti, burocrati, docenti, magistrati, imprenditori, tutto un mondo che in teoria non scrive per lavorare, cui non è possibile negare un posto nel cosmo della scrittura e la cui forma serve a far sopravvivere la foglia fico dell’ esclusiva stampa che sulla carta spetta ai giornalisti. Esclusiva che oggi non regge e che già c’era poco al tempo, ancora presente oggi, in cui la maggioranza dei politici professionalmente era giornalista.
Altre stranezze. I giornalisti battono continuamente il riferimento alla stampa libera, tutelata dall’ordinamento come sale della democrazia. E Articolo 21 è il nome fortunato di uno dei partiti più attivi dei giornalisti. Ragionano, quando fortunati, però come se il giornalismo fosse sempre garantito e finanziato, senza credere loro stessi alla fola della professionalità. Non hanno alcuna intenzione di ammettere tra le idee legittime, quelle estranee al circuito che va dal moderato centrismo all’estremismo più acuto di sinistra. Si fanno scudo del martirio dei cronisti minacciati come se in Italia ci fosse una moria degli operatori dei media. Già anni fa andavano in giro in Europa a raccontare della minaccia alla libera stampa vissuta nel paese. Potessero, aspirerebbero al nuovo termine di giornalisticidio, che non si è imposto sol per mancanza, fortunatamente, di materia. Non interessa loro lo sfruttamento non solidale, all’interno della categoria, dei vecchi, magari pensionati sui giovani; non vedono che si sono create le caste di giornalisti ricchi e poveri, garantiti pubblici e non.
Fra le righe si palesa la massima stranezza. La mentalità dei giornalisti sistemati è rimasta vincolata alla prima repubblica, ai due partiti, DC e PCI, antagonisti di quella stagione, poi fusisi nel centrosinistra. Parteggiando oltre i limiti della decenza per quest’ultima fazione, non hanno però mai contrariato lo sviluppo della seconda repubblica, sotto la stella della sola grande potenza Usa, pur non sopportando il mercato del lavoro destrutturato, le forme contrattuali flessibili, il minor costo del lavoro, la proprietà privata televisiva, nazionale e straniera. In fondo i giornalisti sono vittime dorate dell’adesione obbligata alla globalizzazione che pretende l’identità tra cultura e merce, concetto da loro rifiutato in nome dell’art.21 della Costituzione. Il partito dei media, nella seconda repubblica, mentre difendeva le antiche guarentigie parapubbliche ove possibili, per il resto si è sfogato, massime in Rai, contro il nemico naturale, Sua Emittenza, il proprietario della Tv privata, considerato illegittimo dalla maggioranza mediatica. Così i giornalisti non di centrosinistra sono rimasti chiusi in una bolla di sospetto e di disprezzo, come prezzolati crumiri, felloni antidemocratici, spesso sospesi se non cacciati dall’Ordine. E si sono dedicati alle casse, alle pensioni, alla salute integrativa.
Oggi non è strano che si dica che i giornalisti abbiano perso le ultime elezioni. Ne hanno perse molte in realtà anche in passato. Questa volta hanno giudicato i partiti d’opposizione, fortissimi nell’opinione pubblica, ancora prima che arrivassero al potere e dopo, prima ancora di vederli all’opera, come una sciagura naturale, letteralmente uno tsunami. Senza tentare una comprensione dei trend i giornalisti hanno preferito descrivere l’opinione pubblica come ignorante, disinformata, stupida. Anche negli anni passati, rinunciando al ruolo di cane da guardia dell’opinione pubblica, critico del potere, sono rimasti organici per 30 anni ad un pezzo del potere, quello della ditta burocratica, accademica, bancaria del centrosinistra. Arriva in ritardo, ad excusatio non petita, lo strillo di giustificazione della stampa di non essere una partito, poiché è stata governance della politica. Il risultato drammatico è la perdita di reputation. Gli stessi giornalisti oggi sanno che le loro indicazioni suscitano l’effetto opposto e che uno dei punti di forza dei partiti vincenti è proprio quello di non avere giornali, né radio, né TV. E’ sufficiente la reazione agli atteggiamenti dei media esistenti. Ed è inutile cercare giustificazioni nella mancanza di editori puri o nella marea della comunicazione social.
Il fatto è che è strano un giornalismo comandato da star da spettacolo, da influencer, da inventori di contenitori, ora Tv, ora web, ora cartacei. E’ strana la sovrabbondanza di giornaliste in prima fila nella mise di presentatrici extended la cui presenza ed autorevolezza si fonda sul gender e sulle parentele più o meno acquisite, quasi che le news fossero cinema. Pseudoattori e pseudattrici, annacquando il mestiere di giornalista, non descrivono la realtà, ma una caccia alla volpe, nella quale migliaia di quasi colleghi, vengono lanciati letteralmente sulla strada, per aggredire, più che intervistare, soggetti presunti nemici. La mission affidata, infatti, è laterale alla teoria indiscussa di proprietà dei pochi maitre a ecrire: la mission è quella di mostrare all’inclito pubblico non pagante, il colpevole, il corrotto, il delinquente; ed ha molto poco del lavoro giornalistico. Il lavoro avvilente da cani da caccia, al tempo stesso giornalistici e tecnici, ha avvilito la professionalità della massa di decina di migliaia di bocche recitanti sempre le medesime domande senza alcun interesse alle risposte. Quelle che fanno a botte per avere il posto che li avvicina ai divi; e che comunque restano fra i 2 euro e gli 8 euro ad articolo, all’interno di un contratto accettato dai giornalisti nel 2014 semplicemente perché, il mercato non assegna gran valore alla professionalità della stampa e Tv.
E’ saltata la regola – prima la cronaca, poi la notizia, infine l’opinione; resta la prevedibilità della non-notizia e del commento che segue come fossero news. Si pensi al diluvio di domande, durate giorni, ai familiari e delle loro risposte ovvie nell’occasione della morte di un notissimo criminale di cui e della cui famiglia si era detto e scritto tutto il possibile. Un esempio reiterato, a prescindere da casi e protagonisti diversi che si vuole giustificare con l’esigenza di riempire 24 ore di video Tv e 50 e passa pagine di giornale. La notizia palesemente non c’è, ma i giornalisti la trovano comunque perché bisogna parlare di quel qualcosa o di quel qualcuno. Il risultato è che se è prevedibile la domanda, incurante della risposta, allora diviene legittimo mettere in dubbio il diritto dei giornalisti a fare domande. Perché legittimamente si dubita dell’interesse a risposte poco ascoltate e prese in considerazione.
A molti non sono note le elezioni per il Congresso Fnsi. I relativi rituali non sono di immediata comprensione. La Lombardia manda 50 delegati, Stampa Romana 60. E’ poco chiara la scelta dei candidati. Metà dei giornalisti sono sindacalizzati, di loro vota la metà. Anche le diverse liste – Stampa Democratica, Giornalisti Indipendenti, Insieme, Informazione futuro, Senza Bavaglio e Indipendenti, Movimento Liberi Giornalisti, Nuova Informazione, Impegno Sindacale Unitario, Unità Sindacale, Non rubateci il futuro – Giornalisti Controcorrente– non si distinguono a primo sguardo. Bisogna conoscere la storia dei candidati. La dice lunga però un altro fatto strano. La lista della componente maggioritaria e da lungo tempo al comando si chiama Controcorrente.
Tanto per dimostrare.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.