La definizione di «follia» è: fare sempre la stessa cosa aspettandosi esiti diversi. Alitalia è l’esempio perfetto di una follia bipartisan. Nel 2008, la cessione a AirFrance venne bloccata dall’allora centro-destra, innamorato dell’idea di consegnarla a un gruppo di capitani coraggiosi battenti bandiera italiana, sia pure digiuni di aerei e aviazione. Nel 2013 fu il governo Letta a riportare lo Stato, almeno con un piedino, in Alitalia, attraverso un investimento da parte di Poste Italiane. Nel 2017, dopo che sindacati e azienda (allora il socio forte era Etihad) avevano firmato un accordo per un piano pluriennale che riducesse i costi e provasse a rilanciare la compagnia, i dipendenti votarono contro il progetto. Lo fecero con fredda razionalità: visti i precedenti, era legittimo aspettarsi che lo Stato si precipitasse a salvare l’azienda. Così puntualmente è avvenuto, col governo Gentiloni che ha elargito un «prestito ponte» di 600 milioni di euro (e altri 300 dopo qualche mese).
Si era messo in moto un meccanismo che ha reso inevitabile il ritorno alla proprietà pubblica. Il governo del «cambiamento» non ama il «neoliberismo», che associa alla stagione delle privatizzazioni. Così, quello che i suoi predecessori hanno fatto per calcolo di consenso, il governo Conte farà con entusiasmo ideologico. Lo Stato si appresta, fra Mef e Ferrovie, a diventare azionista di maggioranza. Per trovare un partner industriale ci si è rivolti a Delta, che dovrebbe avere un 15% dell’azienda e portare un po’ di know how. Il resto dell’azionariato farà capo a una compagine di imprenditori. Circolano nomi un po’ improbabili, e non è ben chiaro perché debbano smaniare per essere della partita, a parte che per amor di patria, ovviamente.
Con sadica precisione, Andrea Giuricin (esperto dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Bruno Leoni) ricorda che nell’ultimo anno, operazioni straordinarie a parte, Alitalia ha totalizzato perdite per 500 milioni (pur un miglioramento dall’anno precedente). Oggi il vettore trasporta il 14% dei passeggeri italiani ed è il quarto operatore del Paese.
Una nazionalizzazione dovrebbe scaturire da un interesse pubblico. Quale sia l’interesse pubblico che porta i governi italiani a gingillarsi periodicamente con Alitalia, non è chiaro. Se la questione è «prima gli italiani», ci sono altre compagnie che ne trasportano di più: il fatto che non abbiano il tricolore sulla fiancata degli aerei non cambia nulla, finché i nostri concittadini vorranno spostarsi ci sarà qualcuno pronto ad assicurare questo servizio. La quota di mercato di Alitalia segnala che gli stessi italiani potranno essere «sovranisti» nell’urna, ma quando debbono decidere con chi viaggiare scelgono senza remore operatori internazionali.
Se il problema sono gli occupati di Alitalia, concentrati attorno alla città di Roma e forse per questo più cari di altri alla politica, costerebbe sicuramente di meno farsi carico direttamente delle loro sorti anziché di quelle della loro azienda. Per inciso, non è proprio questa la logica sottesa a strumenti come il reddito di cittadinanza? L’idea di celebrare il glorioso «ritorno dello Stato» solletica la compagine di governo, anche se a dire il vero è difficile che possa tornare qualcosa che non se n’era mai andata. Ciò che tutti hanno fatto sin qui è stato impedire il fallimento attraverso alchimie escogitate nelle stanze di un ministero: i risultati li conosciamo. Perché stavolta dovrebbe essere diverso? Sarebbe rassicurante sapere che il governo ha una risposta, e non solo un tricolore da esibire.
(dal blog Istituto Bruno Leoni)
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