Breton interdit

Cultura e spettacolo RomaPost

Questa è indiscutibilmente sorpresa; poi si fa disappunto  che quella meraviglia della nostra lingua, l’italiano non sia più né parlato né apprezzato e invece un occhiuto sospetto venga  puntato su chi lo parla e lo scrive, come di non sincero, di imbroglione e di falso che poi tra le pareti amene di casa parli quel rutto di dialetto.

Regressione dello spirito, facili anacoluti, abbreviazioni che evitano declinazioni, desinenze e coniugazioni;  un regno del pressappoco, del abbracciato, del confuso, dove il suono incerto su trasformanti vocali sempre abbisogna del cenno della mano, del flettersi del braccio, dell’ondeggiare del corpo, per farsi  intendere.

Più che parole, suoni di natura, che inverse alle onomatopee ricercate, tornano all’incapacità di favella di bestie e altre nature, che così limitate caddero sotto il dominio incontrollato dell’uomo, controllabile solo da esso medesimo. Forse perché incauti e contrari a questa legge di natura, prima che dello spirito, desiderando nell’intimo tornare cosa mai non furono, e vale a dire, bestie, a queste cercano di assimilare il fonema, il verso al verso bestiale, il mugghio al muggito e bearsi del belato.

E tutto questo ruttare e petare e sputare, schiumante di birre, lo chiamano meraviglia, ritorno al popolo, alla comunità, espressione libera quando è il ripristino della catena, rotta all’età del ferro.

Politici di dialetto, scrittori di dialetto, giornalisti di dialetto, pubblicità di dialetto, burocrati dei loro dialetti incomprensibili costruiti per non farsi intendere partecipano alla distruzione di questo paese assediato. Altro che maravigghia, sciaru, petu e fiatu. Alle ginocchia scende il latte di una lotta che sembra impari per la regressione. Solo perché noi non avemmo il coraggio di interdire le breton a l’ecole.

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