Marcello Veneziani “Un Paese sospeso”

Attualità

Come definire l’Italia nel passaggio di consegne dal 2019 al 2020? Un Paese sospeso. Come un corpo penzolante nel vuoto, come un detenuto in attesa di giudizio, come un lavoro in pausa o nell’intervallo. Come il caffè a Napoli, ma in questo caso sospeso non è un credito ma un debito. Siamo tra color che son sospesi. Italiani in lista d’attesa, aziende, banche e istituti sospesi sul ciglio del burrone, un governo (di minoranza nel Paese) che campa alla giornata, un’opposizione, di maggioranza nei consensi, che vive da tempo la sindrome della vigilia; il voto sospeso nell’aria come un conto da regolare. Un paese sospeso a divinis. Sospeso è Conte che vive la sua premiership come un esercizio provvisorio, sospeso è Di Maio che avverte la precarietà dell’alleanza col Pd, ed è corrisposto nella sospensione dai suoi alleati, per non dire di Renzi che vive in sospensione tra il sostegno a un governo che detesta e l’attesa di tornare protagonista. Sospesa è Forza Italia in una fase di tregua tra correnti opposte e mal di pancia. Sospeso è pure il sovranismo biforcuto, con Salvini e Meloni che vivono il loro lungo sabato del villaggio, in attesa di andare al governo. Sospesa è la Regione Emilia-Romagna, con un pronostico equamente diviso tra la conferma della sinistra e la storica conquista dei leghisti. E sull’onda bolognese sospese sono le regioni che voteranno in primavera. Sospesa è la Rai, paralizzata secondo il suo Ad, e sospesi sono molti luoghi istituzionali, e la scuola, e l’università. Sospese perfino le sardine, perché non si sa che faranno dopo i selfie di piazza e le sparate contro Salvini, se darsi alla politica, restare nel limbo o sfumare.

Ma sospeso è il Paese, sono gli italiani, nel loro autoritratto collettivo, una specie di selfie nazionale al giro di boa di un anno e un decennio. Spettatori inermi e disgustati di opere e omissioni dei leader, dei loro portavoce e portaombrelli che infuriano o pontificano sugli schermi, nei social, nei talk show, nelle piazze. Ma il pubblico pagante – gli italiani – come vive questa ennesima fase di passaggio, che aspettative ha? A spostare l’attenzione sulla platea e sulla galleria, vedere come vive, giudica, pensa la gente in questa situazione, si avverte la stessa percezione di un conto in sospeso. D’accordo, gli italiani non sono una massa compatta, non hanno un solo pensiero. Ogni italiano è una repubblica indipendente, fa stato a sé, ha un’opinione a se stante che deriva anche dalle sue esperienze, dagli interessi e dai fatti personali. E ciascuno ha tanti pensieri per la testa che non passano dalla politica e dal teatrino inscenato dalla tv e dai social ma toccano la loro vita, i loro problemi, le loro angosce private, quotidiane, familiari e lavorative. Ma a voler captare gli ultrasuoni, portare a galla gli umori e i malumori, prevale la sensazione unanime di sconforto e di sospensione. Viviamo il bipolarismo delle frustrazioni e quando ci chiediamo come va, lasciamo la risposta ai sospiri e agli interrogativi, come si addice alle situazioni sospese. Da una parte c’è la maggioranza degli italiani che voterebbe sovranista ma poi vede il governo dalla parte opposta alla loro, aggrappato con tutte le unghie laccate al potere, nonostante ogni verdetto. Perciò si sentono raggirati, beffati, non considerati. Che razza di democrazia è questa se il potere sta da una parte e il consenso dall’altra?

Ma anche dall’altra parte, pure quelli che votano a sinistra o i superstiti grillini sono sconfortati e sospesi, perché credono di essere dalla parte giusta, si sentono i migliori, i più avveduti o i più onesti, e si vedono ogni giorno smentiti dalla realtà, non rappresentati dai loro capi, sconfitti, ridotti sempre più a minoranza. Anche se il potere è dalla loro parte. Chi sta barricato nei palazzi se ne può fregare del giudizio popolare e degli umori della gente. Ma chi sta in mezzo alla gente anche se vota a sinistra o grillino, avverte un senso di disagio e di isolamento ogni volta che si confronta col mondo reale e si affaccia nel mondo di fuori. Al governo ci sono i partiti votati da loro, i media sono nelle mani dei loro operatori organici, il clero economico, politico e religioso è in gran parte con loro; ma se vanno per strada o al supermercato, se vanno a cena dai parenti, se incontrano altra gente, se frequentano i social, i bar, gli stadi e le parrocchie, sentono che l’opinione della gente è in prevalenza di parere opposto alla loro. Magari si sentono superiori alla “marmaglia”, soddisfatti di appartenere a un’élite, radical chic o liberal-snob. Ma smentiti in ogni consultazione popolare si accorgono di essere pochi e malvisti. Accade così che tutti, la maggioranza inascoltata e la minoranza incompresa stiano lì sospesi, con la bava alla bocca, chi inveendo contro i potenti chi contro il popolaccio bue.

Tutti aspettano che succeda qualcosa di decisivo, che avvenga una svolta, un chiarimento, uno showdown. Si aspetta il voto come ordalia o giudizio divino, anche per regolare i conti in sospeso con i miserabili voltagabbana, i Conte e i Di Maio e col livido vecchio mondo dei Bellaciao. Si aprono mattanze e vertenze, si accendono contese. Il paese si sta inacidendo, da ambo i versanti, perché non esce mai dalla rancorosa transizione. Non arriva a rielaborare in modo civile la spaccatura, vive il conflitto politico come una guerra civile. Vorrebbe arrivare a un punto di svolta, tirare le somme, sentire che siamo a un giro di boa, alle conclusioni e agli scrutini. Vorrebbe, ma è un continuo rimandare alla prossima puntata. L’Italia resta un paese sospeso. Irrisolto. Si aspetta che il venti-venti porti davvero venti di cambiamento.

Marcello Veneziani

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