Clint Eastwood compie 90 anni oggi, 31 maggio. Anche se l’insondabile gara dei media ad anticipare le celebrazioni, neanche fosse uno scoop, ai più ha confuso le idee. Che fine ha fatto il vecchio adagio per cui anticipare gli auguri di compleanno porta male?
Abbiamo molte ragioni per voler bene a questo roccioso signore che è riuscito a conciliare l’alone da icona pop con un’autorialità asciutta, esemplare, senza fronzoli. Ma soprattutto non conosco nessuno che, come lui, pur professando una passione politica di parte che lo ha portato ad esporsi anche per i candidati repubblicani più controversi, riesca ad abbattere ogni barriera partitica e ideologica. Clint è di tutti. In questi tempi di scontri frontali e generalizzati, è un’utopia vivente.
C’è una battuta chiave all’inizio di “Richard Jewell”, il suo ultimo film. Un grande Sam Rockwell esorta l’ingenuo Richard, schernito da tutti perché ciccione e ottuso- ma col sogno di diventare poliziotto- a non diventare un ‘asshole’, uno s…, perché “basta un po’ di potere per fare di una persona un mostro”. E’ l’idea che Clint Eastwood coltiva da sempre, e che ha declinato innumerevoli volte : il vero eroe è l’uomo comune, l’”ordinary man”, ma chi fa bene il proprio lavoro è condannato a scontrarsi con il Potere, anzi i Poteri.
C’è una onestà di pensiero venata di anarchia, nella Weltanshauung che il vecchio Clint sbandiera senza badare alla correttezza politica, che tocca il cuore. Anche chi ha trovato francamente imbarazzanti le sue ‘interviste alla sedia vuota’, sotto elezione di Obama, e il sostegno a Trump, non può non sentirlo affine e fratello. E’ un paradosso che vorresti, in un mondo migliore, diventasse la norma.
Non è soltanto quel suo essere “troppo individualista per essere di destra o di sinistra”, come si definì in una lontana intervista. E’ il medagliere etico, oltre che artistico, che in questi 90 anni ha accumulato. E’ l’uomo che ha portato all’Oscar l’eutanasia di “MillionDollar Baby”. E’ l’uomo che ha raccontato IwoJima dalla parte dei giapponesi : una rivoluzione. E’ il cineasta che in “Mystic River” ha riunito – e portato all’Oscar- Sean Penn e Tim Robbins, i due campioni dell’opposizione hollywoodiana alla guerra di Bush, quando tutte le Majors stracciavano i loro contratti. E’ quello che con “Gran Torino”ha riscritto il codice dell’antirazzismo senza pistolotti, e riportato il western al rango di grande arte, con “Gli spietati” ( rifiutato da Venezia perché ‘di genere’, non è una leggenda metropolitana! ).
Il pistolero afasico che Sergio Leone liquidava affettuosamente come “un blocco di marmo”dirige in realtà come recita : in economia e di sottrazione. E’come il jazz. Perché in fondo – questo è il segreto -Eastwood è e resta essenzialmente un musicista. Il suo cuore batte con “Bird”, con le note di Charlie Parker e con quelle che compone per i suoi film.
Per me, sullo schermo, la sua immagine più vera è quella di “Piano Blues”, l’episodio che Scorsese gli affidò nella sua serie documentaria sul Blues. Clint al piano, col suo coetaneo Ray Charles, e intorno a loro fantasmi leggendari, incancellabili.
Da trasgressore, mi spalleggiò con calore durante uno di quegli eventi blindati di Hollywood dove se non rispetti il cerimoniale ti arrestano e basta. Trasgredire, ho capito allora, per lui è un piacere, il suo miglior vizio e la sua peggiore virtù. Chissà se pesa quel lembo di terra che da Monterey si inoltra verso le colline circostanti, così caro a lui e a John Steinbeck : anime diverse ma stesso spirito ostinato, da mai allineati. Due outsider.
blog Teresa Marchesi Journalist and filmmaker
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