Caro Colao, il governo non è un CdA e l’Italia non è un’azienda

Attualità

Il Piano Colao – elaborato dal Comitato di esperti in materia economica e sociale insediatosi a Palazzo Chigi durante la fase più acuta dell’emergenza Covid – propone 120 “Iniziative per il rilancio 2020-2022”. Vista la vastità dei temi trattati e l’eterogeneità delle soluzioni è difficile dare un giudizio complessivo. L’impressione, però, è che si tratti più di un collage di proposte indipendenti le une dalle altre che di un progetto organico per accelerare la ripresa economica. Ma, soprattutto, si tratta di un piano senza tempo: se Colao & Co lo avessero scritto dieci anni fa, durante la crisi del debito, oppure cinque anni fa, quando l’Italia sembrava esprimere timidi segnali di crescita, probabilmente ci sarebbero state scritte più o meno le stesse cose. Questo non significa che le specifiche proposte siano di per sé sbagliate (né, beninteso, che siano sempre condivisibili): ma solo che è forte il rischio, quando si compilano questi cataloghi, di contribuire alla copiosa letteratura del “già detto”.

Se poi vogliamo entrare nel merito, si possono fare due osservazioni. La prima riguarda la disomogeneità del piano. Si va da proposte estremamente puntuali (per esempio, sospendere le disposizioni del Decreto Dignità sulle causali) ad altre che definire generiche sarebbe perfino generoso (“rivedere integralmente il Codice dei contratti pubblici”). Ci sono proposte di estremo buonsenso (“Riportare i limiti massimi di emissione elettromagnetica in Italia alle linee guida europee/in linea con i livelli richiesti dagli altri stati membri UE” per promuovere il 5g) e altre che fanno strabuzzare gli occhi (un intervento sugli affitti commerciali che Confedilizia ha definito “un nuovo equo canone”). Insomma: più un collage che un programma, più un menu di proposte che un orizzonte di riforma.

La seconda osservazione riguarda l’approccio, che forse è legato alle professionalità coinvolte nella stesura del piano. Si ha l’impressione che Colao abbia indossato i panni dell’ “amministratore delegato” del paese e che consideri l’Italia alla stregua di un’impresa, della quale deve razionalizzare i flussi di cassa, valorizzare gli attivi e contenere le passività. Ecco: un’economia non è un’azienda, e un governo non è un consiglio di amministrazione. Non era così neppure nell’Unione Sovietica, dove forse l’ambizione di governare l’economia nei minimi dettagli era temperata dalla consapevolezza di non poterlo realmente fare. E poi c’è una sorta di ingenuo disinteresse per i vincoli esterni: le proposte sembrano ignorare il fatto che l’Italia è (fortunatamente) obbligata a rispettare obblighi che derivano dalla sua partecipazione all’Unione europea, all’Organizzazione mondiale del commercio ecc. Per esempio, il piano propone di prorogare senza scadenza le concessioni idroelettriche, ma non spiega né in quale modo ciò possa contribuire all’uscita dal Covid, né come possa sostenere la crescita economica in generale, né infine come spiegarlo a Bruxelles dove da anni è aperta un’infrazione proprio su questo.

Da ultimo, il Piano risente della confusione (a cui ormai siamo abituati) tra piano tecnico e piano politico: le soluzioni sono presentate come contributo tecnico, ma nella maggior parte dei casi sottendono una prospettiva politica. Per esempio, come bilanciare flessibilità e protezione nel mercato del lavoro, se perseguire una logica top down o bottom up, se prediligere politiche verticali (per settori) oppure orizzontali, sono tutte scelte che poggiano su obiettivi e valori. Fingere che le scelte di riforma e di governo siano tecniche e non politiche non renderà le soluzioni più efficaci, ma solo più opache.

Istituto Bruno Leoni

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