C’era una volta il telelavoro. L’avviarono con accordi sindacali per prime Ibm e Telecom nei primi ’90 che anticiparono di un decennio gli accordi nazionale ed europeo. La Pubblica Amministrazione regolamentò per sé a fine ’90, ma non attuò. L’evento venne salutato con grande enfasi come la scoperta del lavoro nuovo, tutto fondato sui vivaci colori degli slogan Microsoft. In realtà il lavoro a distanza di tipo informatico era caratteristica delle grandi imprese più moderne; per il resto si confondeva ancora con una miriade di attività artigianali, per corrispondenza, dal taglia e cuci ai bottoni, dalle fustelle da tagliare ed incollare ai pacchetti da confezionare. Nei fatti poi anche il lavoro a distanza migliore era assegnato per lo più ad invalidi ed a chi rischiava il posto; e si configurava come una pesante intrusione aziendale in casa. L’angolo casalingo individuato, dopo visite ed ispezioni, veniva sanificato alla luce di una miriade di regole ambientali, infortunistiche, sanitarie e soprattutto tecniche con collegamenti speciali che dovevano superare le allora lente comunicazioni di dati. Nel sospetto generale massimi erano l’attenzione ed il controllo sui telelavoratori che soffrivano molto l’estraniamento dal contatto con i colleghi e dalla carenza di quella fucina di notizie e fole che sono gli ambienti delle grandi organizzazioni.
Il lavoro mobile, appannaggio di commerciali e rappresentanti, trovò una nuova definizione quando i manager si trovarono dotati di portatili dove redigere ed inviare i report che con grande novizia di particolari magari avevano già anticipato telefonicamente ai livelli superiori o paritari. Fu altro strepito di gloria, malgrado la riluttanza dei manager che vissero il momento quasi come una reductio. L’accordo si era fatto a pranzo, poi c’era il viaggio di ritorno; perché mai costringersi ad una frettolosa rendicontazione con la difficoltà magari di trovare una spina elettrica standard? La gloria però si concretizzò quando strumenti e libertà d’azione e di informazione si allargarono ai quadri, agli impiegati di lusso, poi a praticamente tutti i colletti bianchi.
Per lo smart working le cose furono diverse. Le imprese persero il bandolo della matassa. Dal primo decennio del nuovo secolo l’impennata della velocità di connessione post Gsm, con l’Lte e l’Umts, e l’esponenziale diffusione di cellulari computer, dopo la commercializzazione del’iPhone nel 2007, dotarono l’utenza domestica di massa di strumenti e poteri superiori agli ambienti aziendali. Le persone, a prescindere da status sociale e disponibilità economiche, cominciarono non solo a mettere in rete video, ma a guardarsi interi film on line, soprattutto piratando; usarono i sistemi di messaging per telefonarsi sulla rete, scavallando gli operatori, si abituarono a video chiamarsi anche in gruppo fino ai multi party on line sui social.
Le aziende, ossessionate dalla sicurezza, e costrette legislativamente a garantirla, continuavano nelle vecchie videoconferenze con impianti costosi su reti pluridifese che avevano più di un problema per l’accavallarsi contemporaneo di nuovi e vecchi hardware e software, di uscite e rientri dalle delimitazioni dei vari confini delle diverse reti sicure interne. Ovviamente le imprese più tecnologiche conoscevano benissimo i nuovi sistemi e l’avvento dei micro software, detti app(licazioni). Le avevano inventate e sperimentate ma esitavano a usarle massivamente. C’erano distinzioni ancora importanti che significavano diversi ambiti di management e carriere, di organizzazione e relazioni. Una cosa era l’informatica, un’altra l’informatica connessa, un’altra ancora era l’informatica del e sul cellulare; ed ancora si dividevano ( e si premiavano o gratificavano) i lavoratori dotandoli o meno di un computer portatile e\o di un cellulare quasi smartphone e poi smartphone a tutti gli effetti.
La società si vedeva invasa da tecnologie diffuse e si allarmava per i rischi sull’integrità dei dati, si preoccupava per lo spionaggio sui cellulari anche dei potenti, inorridiva per i wikileaks e gli Anonymus e pensava solo a sicurezze e intercettazioni. Intanto gli operatori sovrastrutturali sulla rete, sempre più poche multinazionali, se ne fregavano offrendo a miliardi di persone strumenti semplici di enorme presenza interattiva sulla rete che le grandi blue chips non osavano applicare e che le grandi amministrazioni pubbliche non volevano. Paradosso finale fu che i lavoratori con grande frustrazione notavano di poter fare molto di più privatamente che all’interno delle procedure aziendali dove i sistemi d sicurezza bloccavano spesso ambienti e applicativi interni non riconiscendoli sicuri.
Telelavoro e lavoro mobile erano stati diffusi dalle aziende, in numeri non elevati (in Italia il 2% nei migliori paesi europei il 17%), a una società ed a un mondo del lavoro, ignari dei sistemi e delle possibilità offerte. Lo smart working invece è arrivato in un clima di quasi sollevante indignazione della società e dei lavoratori che non si spiegavano perché fosse così facile ascoltare un concerto in diretta da remoto e così difficile accedere ad un evento pubblico aziendale. Tanto più che la grande politica non faceva che ripetere quanto fosse già diffusa la digitalizzazione dell’economia, rilevata al 70%. In questo clima le aspettative per l’applicazione degli strumenti digitali, nella partecipazione, nel voto, nella diffusione trasparente degli eventi furono enormi, anche da un punto di vista politico premiando i primi che la promisero ( e fecero finta di applicarla).
Dunque le aziende subirono l’avvento dello smart working che avrebbero potuto e voluto adottare, frenate da decisioni ambientali politiche e direzionali. Ne seguì un forte discredito per il sistema imprenditoriale nazionale, apparso stagnante in un ritardato conservatorismo, imbelle nel nuovo eco ambiente digitale. Discredito che ricadde anche sui sindacati, vissuti come parte di quel sistema imprenditoriale. Le rappresentanze dei lavoratori mancarono l’appuntamento social come si erano perse quello web, non si accorsero del quotidiano utilizzo del digitale dei loro iscritti, contrattarono ancora presenze arcaiche web sulle reti interne aziendali, mai si sognarono di diffondere ed interattivare un evento congressuale in streaming. (1° parte)
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.